PROTOVILLANOVIANI E VILLANOVIANI: CIVILTÀ

Former Member
PROTOVILLANOVIANI E VILLANOVIANI: CIVILTÀ

Visite turistiche

La cultura villanoviana, o civiltà villanoviana o villanoviano, è una facies della prima età del Ferro, le cui origini vanno ricercate nella cultura protovillanoviana, e rappresenta la fase più antica della civiltà etrusca. Periodo: Prima età del ferro Date: 900-720 a.C Definita da: Giovanni Gozzadini nel 1853-1855 Nomi alternativi: Civiltà villanoviana, facies villanoviana, periodo villanoviano Orizzonte archeologico: Fase più antica della civiltà etrusca Preceduta da: Cultura protovillanoviana
La cultura protovillanoviana (XII sec. a.C. - X sec. a.C.) è una facies culturale sovranazionale, derivata dalla cultura dei campi di urne dell'Europa centrale, che si diffonde in gran parte d'Italia, incluse la Sicilia orientale e le isole Eolie, tra il 1175 a.C. e il 960 a.C. circa, nell'età del bronzo finale, caratterizzata dal rituale funerario dell’incinerazione. ORIGINI La cultura protovillanoviana, termine introdotto da Giovanni Patroni nel 1937, è inserita nel circuito dei campi d'urne dell'Europa centrale (dal tedesco Urnenfelder), e mostra, in particolare, una certa rassomiglianza con i gruppi regionali a nord della Alpi orientali: quelli della Baviera-Alta Austria e quelli del medio-Danubio. Per Francesco di Gennaro, inoltre, la cultura protovillanoviana mostra affinità settentrionali con la cultura lusaziana e quella di Canegrate. DIFFUSIONE Attraverso la cultura protovillanoviana la penisola italiana in parte si unificò culturalmente, dal nord sino alla Sicilia orientale. Abitati e tombe di aspetto protovillanoviano sono numerosi in tutta la penisola, particolarmente nel centro-nord ad esempio a Frattesina nel Veneto, a Bismantova e Ripa Calbana in Emilia Romagna, a Cetona, Sovana e Saturnia in Toscana, nei monti della Tolfa nel Lazio, a Pianello di Genga e Ancona (Colle dei Cappuccini) nelle Marche, mentre nel sud importanti sono i siti di Ortucchio in Abruzzo, di Timmari in provincia di Matera (Basilicata), Torre Castelluccia, Canosa (Puglia), Tropea (Calabria) e di Milazzo (Sicilia). CULTURA MATERIALE Le caratteristiche della produzione materiale protovillanoviana si possono riassumere nella ceramica in produzioni vascolari decorate a solcature con motivi geometrici e nella metallurgia con la produzione di bronzi laminati decorati a sbalzo, lavorazione detta a borchiette e puntin. USI FUNERARI La cultura protovillanoviana presenta molti tratti in comune con la cultura dei campi di urne dell'Europa centrale (più precisamente con i gruppi regionali della valle del Danubio), in particolare per quanto riguarda le pratiche funerarie. I defunti venivano cremati e successivamente le loro ceneri venivano riposte in urne biconiche di ceramica decorate generalmente con disegni geometrici; i motivi decorativi della ceramica sono solcati nell'argilla prima della cottura e solo nelle regioni meridionali sono realizzati anche tramite pittura, mostrando in modo più chiaro il legame stilistico con il protogeometrico greco. CULTO DEPOSITI VOTIVI Il ritrovamento di vari depositi di bronzi ha fatto ipotizzare che questi oggetti fossero offerte votive alle divinità o corredi per l'aldilà. Molto spesso questi depositi o "ripostigli" erano situati nei letti dei fiumi o più in generale nelle zone umide, forse ad indicare un culto incentrato su una qualche divinità delle acque. Tuttavia in alcuni casi questi depositi sono da intendere come un semplice accumulo di oggetti pronti per essere rifusi e quindi riciclati. BARCA SOLARE Durante l'età del bronzo finale viene introdotta la simbologia (di tradizione centro-europea) della "barca solare", legata al culto solare e astrale. INSEDIAMENTI Gli insediamenti protovillanoviani venivano generalmente edificati su alture ben difese ed erano spesso muniti anche di fortificazioni artificiali. In alcuni insediamenti vivevano comunità di piccole dimensioni numeriche (50-100 individui); si è calcolato che nell'Italia medio-tirrenica le dimensioni medie delle aree di insediamento fossero di 40-50.000 mq, con 300-500 abitanti. Non mancavano insediamenti di maggior rilevanza (500-1000 individui) che probabilmente esercitavano una sorta di egemonia sui centri più piccoli. ASPETTI SOCIO-ECONOMICI L'economia nell'età del bronzo finale era basata principalmente sull'agricoltura, l'allevamento, la pastorizia e sulle attività connesse alla metallurgia. COMMERCIO Nell'età del bronzo finale, corrispondente all'aspetto culturale protovillanoviano, nella penisola si intensificano gli scambi commerciali con le popolazioni di altre civiltà, effettuati sia per via terrestre sia per via marittima. L'Italia medio-tirrenica in particolare era parte di un importante "circuito commerciale" con le popolazioni dell'Egeo (Micenei, Ciprioti), della Gallia meridionale, della Sardegna, della Sicilia etc. STRATIFICAZIONE SOCIALE Il ritrovamento di edifici di grandi dimensioni e di sepolture che, specie in alcune aree (per esempio i Monti della Tolfa), si presentano fortemente differenziate per complessità dei "corredi" e per ricchezza dei materiali, dimostra che in queste comunità esisteva già una certa stratificazione sociale. Nelle comunità assunse un ruolo particolare la figura dell'artigiano specialista. Questo fenomeno di articolazione sociale ebbe luogo soprattutto fra le comunità protovillanoviane dell'Etruria meridionale e del Lazio. SVILUPPI DELLA CULTURA PROTOVILLANOVIANA Nella successiva età del ferro si assiste a un processo di regionalizzazione della cultura protovillanoviana. Possono essere così distinti una serie di gruppi regionali: nel nord Italia appare la cultura di Golasecca associata a una popolazione di lingua leponzia, nel Veneto si sviluppa la civiltà atestina associata ai Paleoveneti, nel centro e nord Italia appare la civiltà villanoviana associata agli Etruschi, nel centro Italia la cultura laziale associata ai Protolatini e la cultura di Terni associata ai Protoumbri. L'elemento di legame più evidente fra il protovillanoviano, il golasecchiano, l'atestino, il villanoviano, la cultura laziale è il rito dell'incinerazione dei defunti che non subisce particolari cambiamenti cerimoniali e sarà praticato per secoli sia dalle popolazioni di lingua indoeuropea, sia da quelle di lingua preindoeuropea come gli Etruschi. Mentre nella cultura di Terni l'incinerazione rimane documentata maggiormente nella fase iniziale detta Terni I, è infatti il rito inumatorio quello caratteristico dei costumi funerari delle popolazioni di etnia umbra. Si riconosce che la cultura protovillanoviana abbia avuto un ruolo anche nell'etnogenesi dei Piceni e delle altre popolazioni di lingua osco-umbra. IPOTESI LINGUISTICHE Benché non vi siano prove certe, non esistendo iscrizioni risalenti a quest'epoca, si è ipotizzato che la diffusione della cultura protovillanoviana in Italia coincida con la discesa delle popolazioni appartenenti alle lingue italiche, nel contesto della migrazioni indoeuropee della seconda metà dell'età del bronzo. Marija Gimbutas sosteneva una colonizzazione "proto-Italica" dell'Italia centro-settentrionale da parte dei gruppi di campi di urne "Nord-Alpini" (Baviera e Austria). Somiglianze fra le ceramiche dei campi di urne di quest'area geografica e quelle protovillanoviane sono state notate dalla stessa autrice. David W. Anthony, argomentando sulla supposta unità linguistica italo-celtica, ha collegato l'arrivo degli Italici con la cultura protovillanoviana, derivante a sua volta, dai campi di urne della pianura bavarese o dall'Ungheria. Secondo Kristian Kristansen la cultura protovillanoviana sarebbe piuttosto da associare al gruppo di Velatice-Baierdorf, tra Austria occidentale e Germania meridionale. L'identificazione della cultura protovillanoviana con la sola famiglia linguistica italica è, tuttavia, problematica, come già sostenuto da Renato Peroni. Non esiste alcuna evidenza che tutte le popolazioni protovillanoviane parlassero lingue appartenenti alla stessa famiglia linguistica. La stessa famiglia italica è divisa in due rami, lingue italiche occidentali (lingue latino-falische) e lingue italiche orientali (lingue osco-umbre). L'incinerazione, caratteristica del protovillanoviano, era diffusa significativamente solo nelle popolazioni di lingua latino-falisca (le popolazioni osco-umbre erano prevalentemente inumatrici) e non tutti i linguisti sono concordi nel ritenere che questi due rami si siano formati in Italia. La cultura protovillanoviana è associata anche ai Protoveneti, i quali, in epoca storica, parlavano la lingua venetica, lingua indoeuropea sulla cui classificazione non esiste ancora consenso. Così come dalla cultura protovillanoviana emergono anche i Protoetruschi intorno all'XI-X sec. a.C. e dal 900 a.C. circa la cultura villanoviana la fase più antica degli Etruschi che parlavano una lingua preindoeuropea. Simile situazione anche per i Reti, altra popolazione linguisticamente preindoeuropea e legata, presumibilmente, agli Etruschi. Anche il territorio retico, nella prima età del ferro, in particolare il tirolese, fu interessato da manifestazioni della cultura dei campi d'urne. Talvolta, anche la cultura di Canegrate, seguita dalla cultura di Golasecca dell'età ferro, viene inserita nel contesto della cultura materiale del protovillanoviano. In questo caso si ipotizza che le migrazioni dei campi d'urne provenissero dal gruppo renano-svizzero, che si estende anche alla Francia orientale (abbreviato in francese: RSFO), dei campi di urne della Germania meridionale. Nella cultura di Golasecca sono attestate iscrizioni di lingua leponzia, considerata una lingua celtica.
131 người dân địa phương đề xuất
Santarcangelo di Romagna
131 người dân địa phương đề xuất
La cultura protovillanoviana (XII sec. a.C. - X sec. a.C.) è una facies culturale sovranazionale, derivata dalla cultura dei campi di urne dell'Europa centrale, che si diffonde in gran parte d'Italia, incluse la Sicilia orientale e le isole Eolie, tra il 1175 a.C. e il 960 a.C. circa, nell'età del bronzo finale, caratterizzata dal rituale funerario dell’incinerazione. ORIGINI La cultura protovillanoviana, termine introdotto da Giovanni Patroni nel 1937, è inserita nel circuito dei campi d'urne dell'Europa centrale (dal tedesco Urnenfelder), e mostra, in particolare, una certa rassomiglianza con i gruppi regionali a nord della Alpi orientali: quelli della Baviera-Alta Austria e quelli del medio-Danubio. Per Francesco di Gennaro, inoltre, la cultura protovillanoviana mostra affinità settentrionali con la cultura lusaziana e quella di Canegrate. DIFFUSIONE Attraverso la cultura protovillanoviana la penisola italiana in parte si unificò culturalmente, dal nord sino alla Sicilia orientale. Abitati e tombe di aspetto protovillanoviano sono numerosi in tutta la penisola, particolarmente nel centro-nord ad esempio a Frattesina nel Veneto, a Bismantova e Ripa Calbana in Emilia Romagna, a Cetona, Sovana e Saturnia in Toscana, nei monti della Tolfa nel Lazio, a Pianello di Genga e Ancona (Colle dei Cappuccini) nelle Marche, mentre nel sud importanti sono i siti di Ortucchio in Abruzzo, di Timmari in provincia di Matera (Basilicata), Torre Castelluccia, Canosa (Puglia), Tropea (Calabria) e di Milazzo (Sicilia). CULTURA MATERIALE Le caratteristiche della produzione materiale protovillanoviana si possono riassumere nella ceramica in produzioni vascolari decorate a solcature con motivi geometrici e nella metallurgia con la produzione di bronzi laminati decorati a sbalzo, lavorazione detta a borchiette e puntin. USI FUNERARI La cultura protovillanoviana presenta molti tratti in comune con la cultura dei campi di urne dell'Europa centrale (più precisamente con i gruppi regionali della valle del Danubio), in particolare per quanto riguarda le pratiche funerarie. I defunti venivano cremati e successivamente le loro ceneri venivano riposte in urne biconiche di ceramica decorate generalmente con disegni geometrici; i motivi decorativi della ceramica sono solcati nell'argilla prima della cottura e solo nelle regioni meridionali sono realizzati anche tramite pittura, mostrando in modo più chiaro il legame stilistico con il protogeometrico greco. CULTO DEPOSITI VOTIVI Il ritrovamento di vari depositi di bronzi ha fatto ipotizzare che questi oggetti fossero offerte votive alle divinità o corredi per l'aldilà. Molto spesso questi depositi o "ripostigli" erano situati nei letti dei fiumi o più in generale nelle zone umide, forse ad indicare un culto incentrato su una qualche divinità delle acque. Tuttavia in alcuni casi questi depositi sono da intendere come un semplice accumulo di oggetti pronti per essere rifusi e quindi riciclati. BARCA SOLARE Durante l'età del bronzo finale viene introdotta la simbologia (di tradizione centro-europea) della "barca solare", legata al culto solare e astrale. INSEDIAMENTI Gli insediamenti protovillanoviani venivano generalmente edificati su alture ben difese ed erano spesso muniti anche di fortificazioni artificiali. In alcuni insediamenti vivevano comunità di piccole dimensioni numeriche (50-100 individui); si è calcolato che nell'Italia medio-tirrenica le dimensioni medie delle aree di insediamento fossero di 40-50.000 mq, con 300-500 abitanti. Non mancavano insediamenti di maggior rilevanza (500-1000 individui) che probabilmente esercitavano una sorta di egemonia sui centri più piccoli. ASPETTI SOCIO-ECONOMICI L'economia nell'età del bronzo finale era basata principalmente sull'agricoltura, l'allevamento, la pastorizia e sulle attività connesse alla metallurgia. COMMERCIO Nell'età del bronzo finale, corrispondente all'aspetto culturale protovillanoviano, nella penisola si intensificano gli scambi commerciali con le popolazioni di altre civiltà, effettuati sia per via terrestre sia per via marittima. L'Italia medio-tirrenica in particolare era parte di un importante "circuito commerciale" con le popolazioni dell'Egeo (Micenei, Ciprioti), della Gallia meridionale, della Sardegna, della Sicilia etc. STRATIFICAZIONE SOCIALE Il ritrovamento di edifici di grandi dimensioni e di sepolture che, specie in alcune aree (per esempio i Monti della Tolfa), si presentano fortemente differenziate per complessità dei "corredi" e per ricchezza dei materiali, dimostra che in queste comunità esisteva già una certa stratificazione sociale. Nelle comunità assunse un ruolo particolare la figura dell'artigiano specialista. Questo fenomeno di articolazione sociale ebbe luogo soprattutto fra le comunità protovillanoviane dell'Etruria meridionale e del Lazio. SVILUPPI DELLA CULTURA PROTOVILLANOVIANA Nella successiva età del ferro si assiste a un processo di regionalizzazione della cultura protovillanoviana. Possono essere così distinti una serie di gruppi regionali: nel nord Italia appare la cultura di Golasecca associata a una popolazione di lingua leponzia, nel Veneto si sviluppa la civiltà atestina associata ai Paleoveneti, nel centro e nord Italia appare la civiltà villanoviana associata agli Etruschi, nel centro Italia la cultura laziale associata ai Protolatini e la cultura di Terni associata ai Protoumbri. L'elemento di legame più evidente fra il protovillanoviano, il golasecchiano, l'atestino, il villanoviano, la cultura laziale è il rito dell'incinerazione dei defunti che non subisce particolari cambiamenti cerimoniali e sarà praticato per secoli sia dalle popolazioni di lingua indoeuropea, sia da quelle di lingua preindoeuropea come gli Etruschi. Mentre nella cultura di Terni l'incinerazione rimane documentata maggiormente nella fase iniziale detta Terni I, è infatti il rito inumatorio quello caratteristico dei costumi funerari delle popolazioni di etnia umbra. Si riconosce che la cultura protovillanoviana abbia avuto un ruolo anche nell'etnogenesi dei Piceni e delle altre popolazioni di lingua osco-umbra. IPOTESI LINGUISTICHE Benché non vi siano prove certe, non esistendo iscrizioni risalenti a quest'epoca, si è ipotizzato che la diffusione della cultura protovillanoviana in Italia coincida con la discesa delle popolazioni appartenenti alle lingue italiche, nel contesto della migrazioni indoeuropee della seconda metà dell'età del bronzo. Marija Gimbutas sosteneva una colonizzazione "proto-Italica" dell'Italia centro-settentrionale da parte dei gruppi di campi di urne "Nord-Alpini" (Baviera e Austria). Somiglianze fra le ceramiche dei campi di urne di quest'area geografica e quelle protovillanoviane sono state notate dalla stessa autrice. David W. Anthony, argomentando sulla supposta unità linguistica italo-celtica, ha collegato l'arrivo degli Italici con la cultura protovillanoviana, derivante a sua volta, dai campi di urne della pianura bavarese o dall'Ungheria. Secondo Kristian Kristansen la cultura protovillanoviana sarebbe piuttosto da associare al gruppo di Velatice-Baierdorf, tra Austria occidentale e Germania meridionale. L'identificazione della cultura protovillanoviana con la sola famiglia linguistica italica è, tuttavia, problematica, come già sostenuto da Renato Peroni. Non esiste alcuna evidenza che tutte le popolazioni protovillanoviane parlassero lingue appartenenti alla stessa famiglia linguistica. La stessa famiglia italica è divisa in due rami, lingue italiche occidentali (lingue latino-falische) e lingue italiche orientali (lingue osco-umbre). L'incinerazione, caratteristica del protovillanoviano, era diffusa significativamente solo nelle popolazioni di lingua latino-falisca (le popolazioni osco-umbre erano prevalentemente inumatrici) e non tutti i linguisti sono concordi nel ritenere che questi due rami si siano formati in Italia. La cultura protovillanoviana è associata anche ai Protoveneti, i quali, in epoca storica, parlavano la lingua venetica, lingua indoeuropea sulla cui classificazione non esiste ancora consenso. Così come dalla cultura protovillanoviana emergono anche i Protoetruschi intorno all'XI-X sec. a.C. e dal 900 a.C. circa la cultura villanoviana la fase più antica degli Etruschi che parlavano una lingua preindoeuropea. Simile situazione anche per i Reti, altra popolazione linguisticamente preindoeuropea e legata, presumibilmente, agli Etruschi. Anche il territorio retico, nella prima età del ferro, in particolare il tirolese, fu interessato da manifestazioni della cultura dei campi d'urne. Talvolta, anche la cultura di Canegrate, seguita dalla cultura di Golasecca dell'età ferro, viene inserita nel contesto della cultura materiale del protovillanoviano. In questo caso si ipotizza che le migrazioni dei campi d'urne provenissero dal gruppo renano-svizzero, che si estende anche alla Francia orientale (abbreviato in francese: RSFO), dei campi di urne della Germania meridionale. Nella cultura di Golasecca sono attestate iscrizioni di lingua leponzia, considerata una lingua celtica.
La cultura villanoviana (X sec. a.C. - VIII sec. a.C.) è una facies della prima età del Ferro, le cui origini vanno ricercate nella cultura protovillanoviana e rappresenta la fase più antica della civiltà etrusca. Il nome deriva dalla località di Villanova, frazione del comune di Castenaso nella città metropolitana di Bologna dove, fra il 1853 e il 1855, Giovanni Gozzadini (1810–1887) ritrovò i resti di una necropoli, portando alla luce 193 tombe, di cui 179 a incinerazione e 14 a inumazione. STORIA Durante la prima età del ferro, tra il X e l'VIII sec. a.C., l'aspetto villanoviano caratterizzò l'Etruria tirrenica (Toscana e Lazio), l'Emilia-Romagna (in particolare, la zona di Bologna e Verucchio nel riminese), le Marche (Fermo), la Campania (Capua, Capodifiume, Pontecagnano, Eboli, Sala Consilina), emergendo dalla precedente cultura proto-villanoviana che si era sviluppata all'arrivo della seconda grande ondata di indoeuropei. Tra Toscana, Lazio, Emilia e in alcune aree della Campania e della pianura padana orientale gli insediamenti villanoviani paiono molto fitti, sovente ve ne sarebbe uno ogni 5–15 km, su ogni collina adatta per la difesa e posta vicino a fonti d'acqua pura, con altri insediamenti più piccoli nelle zone costiere e nelle zone montuose appenniniche. Nel IX sec. a.C. gli insediamenti villanoviani sembrerebbero capillarmente distribuiti in buona parte dell'Italia centrale, piuttosto omogenei nell'Italia tirrenica meridionale e in varie zone dell'Italia settentrionale e adriatica. VILLANOVIANA, PRIMA FASE DELLA CIVILTÀ ETRUSCA Sulla base della diffusione nello stesso territorio sul quale si svilupperà poi la civiltà etrusca, la cultura villanoviana è stata riconosciuta come una fase iniziale di questa. Anche recentemente, considerato che in nessuna grande città etrusca si constata uno sconvolgimento, un cambiamento improvviso o una frattura fra l'VIII (villanoviano evoluto) e il VII sec. (orientalizzante) ma, piuttosto, una continuità. È stato ribadito che i Villanoviani possono essere considerati Etruschi, la prima fase della civiltà etrusca.Questa teoria è stata fortemente sostenuta anche per i protovillanoviani e sottolineando come l'area culturale villanoviana sia sovente costituita da enclave (e colonie) all'interno di aree culturali differenti, riassorbite dalle civiltà adiacenti. Questa teoria è quella più accettata dalla comunità scientifica, anche perché vi sono isoglosse linguistiche dell'etrusco corrispondenti ad alcuni insediamenti villanoviani (es. Volturno) e iscrizioni in caratteri etruschi arcaici in corrispondenza del villanoviano IV (sec. VII) bolognese. PERIODIZZAZIONE E CRONOLOGIA La cultura villanoviana è divisa in Villanoviano I dal 900 a.C. al 800 a.C. circa e il Villanoviano II dall'800 a.C. circa al 720 a.C.. La fase successiva (Villanoviano II) vede cambiamenti radicali, testimonianze del contatto con la civiltà ellenica e del commercio con il nord lungo la via dell'ambra. Con l'ultima fase del Villanoviano (Villanoviano II) gli Etruschi, in particolare l'Etruria meridionale, entrano nel periodo orientalizzante. Per le aree più settentrionali del mondo etrusco, come l'Etruria padana e in particolare l'area bolognese, Villanoviano III (720-680 a.C.) e Villanoviano IV (680-540 a.C.) sono ancora oggi in uso come periodizzazione. CARATTERISTICHE La principale caratteristica della cultura villanoviana erano le sepolture a incinerazione, nelle quali le ceneri del defunto erano ospitate in un'urna: la pratica funeraria ha somiglianze con gli aspetti della "cultura dei campi di urne" della pianura danubiana. Nelle necropoli villanoviane è però attestato anche il rito inumatorio con tombe a fossa che, a partire dagli inizi dell'VIII sec. a.C., coesiste con quello crematorio. Nelle vicinanze degli abitati, alcuni dei quali in questo periodo assumono proporzioni senza precedenti, tanto da essere definiti centri protourbani, si trovavano le aree funerarie, caratterizzate da tombe a pozzetto (pozzi scavati le cui pareti erano eventualmente rivestite in ciottoli), tombe a fossa (destinate all'inumazione del defunto) e tombe a cassetta (dette anche a cassone, costituite da lastre di pietra). Le urne cinerarie erano costituite prevalentemente da vasi biconici, ma anche da olle, brocche biconiche (o ovoidali) e anfore. Un altro tipo di cinerario è l'urna a capanna che si ritiene fosse riservata ai pater familias. Il tipico ossuario biconico era provvisto di una o due anse orizzontali impostate sul punto di massima espansione; nel caso di vasi con due manici di cui uno spezzato, si è ipotizzato una funzione rituale. Le urne cinerarie erano chiuse da scodelle rovesciate o, a volte, da elmi per alcune sepolture maschili. Il corredo funerario poteva comprendere morsi di cavallo, rasoi lunati (con la lama a forma di mezzaluna), fibule (spille chiuse per le vesti) "serpeggianti", spilloni e armi per gli uomini, oppure elementi di cinturoni, fibule "ad arco", spirali per capelli ed elementi del telaio per le donne. Nelle deposizioni villanoviane risulta poco diffusa la presenza di elementi ceramici diversi dall'urna cineraria e dal coperchio della stessa. La ceramica mostra forme molto varie, con le pareti spesse (per cui è necessaria una cottura ad alte temperature, che comporta una specializzazione artigianale accentuata). La decorazione è incisa, spesso con uno strumento a più punte e i motivi sono per lo più geometrici. I corredi funebri delle sepolture sia a cremazione che a inumazione, riferite al villanoviano evoluto, si presentano più abbondanti e lussuosi di quelli del villanoviano antico: col passare del tempo si cominciano a cogliere in essi i segni di una stabile differenziazione sociale. Le capanne e le altre strutture abitative, per quanto è dato evincere dalle tracce emerse dagli scavi e dalle urne conformate a capanna, avevano pianta ellittica, circolare, rettangolare o quadrata. Erano costruite con legno e rifinite con argilla. Avevano una porta sul lato più corto, abbaini sul tetto per l'uscita del fumo del focolare e talvolta anche finestre. La società villanoviana era inizialmente dedita all'agricoltura e all'allevamento, ma progressivamente le attività artigianali specializzate (particolarmente la metallurgia e la ceramica) generarono accumulo di ricchezza e favorirono la stratificazione sociale. INSEDIAMENTI Non sono chiari i rapporti della cultura villanoviana e protovillanoviana con quella delle terramare, sviluppatasi nell'età del bronzo (seconda metà del II millennio a.C.) nella pianura padana, che ugualmente praticava il rito dell'incinerazione, ma con cui manca ogni continuità negli insediamenti. I villaggi terramaricoli vengono abbandonati nel XII sec. a.C. per ragioni ancora sconosciute, mentre gli insediamenti villanoviani risalgono al IX sec. a.C. e quelli protovillanoviani all'XII sec. a.C.. Tuttavia risalendo nel tempo, nella zona geografica occupata nella prima età del ferro dai gruppi portatori dell'aspetto villanoviano, nella tarda e nella piena età del bronzo si riconosce già una presenza permanente di gruppi organizzati sulla base di un rapporto stabile tra insediamenti e territorio. Numerosi abitati occupati nelle fasi non avanzate della media età del bronzo (intorno al XVII sec. a.C.) prosperano attraverso le successive fasi del Bronzo Medio 3 (aspetto stilistico "appenninico"), del Bronzo Recente (aspetto subappenninico del XII sec. a.C.) e del Bronzo Finale. Successivamente le popolazioni tendono ad abbandonare gli altopiani sui quali si erano stanziate nel periodo precedente con finalità essenzialmente difensive, privilegiando pianori e colline adiacenti per poter meglio sfruttare le risorse agricole e minerarie. Gli insediamenti si caratterizzano per una maggior concentrazione e per la loro collocazione in prossimità di vie di comunicazioni naturali e di approdi fluviali, lacustri e marittimi. In Toscana e nel Lazio settentrionale la progressiva crescita demografica e la vicenda dei rapporti, spesso non pacifici, tra i centri abitati protostorici, portò alla nascita di grandi centri abitati, per "sinecismo" (aggregazione) di villaggi anche non vicini tra loro. A partire dal IX sec. a.C. si posero così le basi di quelle che sarebbero state le grandi città etrusche di epoca storica, come Volterra, Chiusi, Vetulonia, Orvieto, Vulci, Roselle, Tarquinia, Cerveteri, Veio. Dal IX all'VIII sec. a.C., specie a causa del successo del nuovo sistema economico e produttivo, si accentuò la consistenza della popolazione di questi grandi centri "protourbani", mentre i diversi gruppi familiari seppellivano i defunti in luoghi posti al di fuori dei limiti dell'abitato e che nel loro insieme formavano una vasta "necropoli". I grandi abitati centrali divennero importanti nodi sulle vie di comunicazione e dettero luogo alla prima forma di stato della penisola. Nel settore padano gli insediamenti prosperano anche grazie al commercio con le regioni più settentrionali. Il centro più importante sembra essere Verucchio, in Romagna.
49 người dân địa phương đề xuất
Verucchio
49 người dân địa phương đề xuất
La cultura villanoviana (X sec. a.C. - VIII sec. a.C.) è una facies della prima età del Ferro, le cui origini vanno ricercate nella cultura protovillanoviana e rappresenta la fase più antica della civiltà etrusca. Il nome deriva dalla località di Villanova, frazione del comune di Castenaso nella città metropolitana di Bologna dove, fra il 1853 e il 1855, Giovanni Gozzadini (1810–1887) ritrovò i resti di una necropoli, portando alla luce 193 tombe, di cui 179 a incinerazione e 14 a inumazione. STORIA Durante la prima età del ferro, tra il X e l'VIII sec. a.C., l'aspetto villanoviano caratterizzò l'Etruria tirrenica (Toscana e Lazio), l'Emilia-Romagna (in particolare, la zona di Bologna e Verucchio nel riminese), le Marche (Fermo), la Campania (Capua, Capodifiume, Pontecagnano, Eboli, Sala Consilina), emergendo dalla precedente cultura proto-villanoviana che si era sviluppata all'arrivo della seconda grande ondata di indoeuropei. Tra Toscana, Lazio, Emilia e in alcune aree della Campania e della pianura padana orientale gli insediamenti villanoviani paiono molto fitti, sovente ve ne sarebbe uno ogni 5–15 km, su ogni collina adatta per la difesa e posta vicino a fonti d'acqua pura, con altri insediamenti più piccoli nelle zone costiere e nelle zone montuose appenniniche. Nel IX sec. a.C. gli insediamenti villanoviani sembrerebbero capillarmente distribuiti in buona parte dell'Italia centrale, piuttosto omogenei nell'Italia tirrenica meridionale e in varie zone dell'Italia settentrionale e adriatica. VILLANOVIANA, PRIMA FASE DELLA CIVILTÀ ETRUSCA Sulla base della diffusione nello stesso territorio sul quale si svilupperà poi la civiltà etrusca, la cultura villanoviana è stata riconosciuta come una fase iniziale di questa. Anche recentemente, considerato che in nessuna grande città etrusca si constata uno sconvolgimento, un cambiamento improvviso o una frattura fra l'VIII (villanoviano evoluto) e il VII sec. (orientalizzante) ma, piuttosto, una continuità. È stato ribadito che i Villanoviani possono essere considerati Etruschi, la prima fase della civiltà etrusca.Questa teoria è stata fortemente sostenuta anche per i protovillanoviani e sottolineando come l'area culturale villanoviana sia sovente costituita da enclave (e colonie) all'interno di aree culturali differenti, riassorbite dalle civiltà adiacenti. Questa teoria è quella più accettata dalla comunità scientifica, anche perché vi sono isoglosse linguistiche dell'etrusco corrispondenti ad alcuni insediamenti villanoviani (es. Volturno) e iscrizioni in caratteri etruschi arcaici in corrispondenza del villanoviano IV (sec. VII) bolognese. PERIODIZZAZIONE E CRONOLOGIA La cultura villanoviana è divisa in Villanoviano I dal 900 a.C. al 800 a.C. circa e il Villanoviano II dall'800 a.C. circa al 720 a.C.. La fase successiva (Villanoviano II) vede cambiamenti radicali, testimonianze del contatto con la civiltà ellenica e del commercio con il nord lungo la via dell'ambra. Con l'ultima fase del Villanoviano (Villanoviano II) gli Etruschi, in particolare l'Etruria meridionale, entrano nel periodo orientalizzante. Per le aree più settentrionali del mondo etrusco, come l'Etruria padana e in particolare l'area bolognese, Villanoviano III (720-680 a.C.) e Villanoviano IV (680-540 a.C.) sono ancora oggi in uso come periodizzazione. CARATTERISTICHE La principale caratteristica della cultura villanoviana erano le sepolture a incinerazione, nelle quali le ceneri del defunto erano ospitate in un'urna: la pratica funeraria ha somiglianze con gli aspetti della "cultura dei campi di urne" della pianura danubiana. Nelle necropoli villanoviane è però attestato anche il rito inumatorio con tombe a fossa che, a partire dagli inizi dell'VIII sec. a.C., coesiste con quello crematorio. Nelle vicinanze degli abitati, alcuni dei quali in questo periodo assumono proporzioni senza precedenti, tanto da essere definiti centri protourbani, si trovavano le aree funerarie, caratterizzate da tombe a pozzetto (pozzi scavati le cui pareti erano eventualmente rivestite in ciottoli), tombe a fossa (destinate all'inumazione del defunto) e tombe a cassetta (dette anche a cassone, costituite da lastre di pietra). Le urne cinerarie erano costituite prevalentemente da vasi biconici, ma anche da olle, brocche biconiche (o ovoidali) e anfore. Un altro tipo di cinerario è l'urna a capanna che si ritiene fosse riservata ai pater familias. Il tipico ossuario biconico era provvisto di una o due anse orizzontali impostate sul punto di massima espansione; nel caso di vasi con due manici di cui uno spezzato, si è ipotizzato una funzione rituale. Le urne cinerarie erano chiuse da scodelle rovesciate o, a volte, da elmi per alcune sepolture maschili. Il corredo funerario poteva comprendere morsi di cavallo, rasoi lunati (con la lama a forma di mezzaluna), fibule (spille chiuse per le vesti) "serpeggianti", spilloni e armi per gli uomini, oppure elementi di cinturoni, fibule "ad arco", spirali per capelli ed elementi del telaio per le donne. Nelle deposizioni villanoviane risulta poco diffusa la presenza di elementi ceramici diversi dall'urna cineraria e dal coperchio della stessa. La ceramica mostra forme molto varie, con le pareti spesse (per cui è necessaria una cottura ad alte temperature, che comporta una specializzazione artigianale accentuata). La decorazione è incisa, spesso con uno strumento a più punte e i motivi sono per lo più geometrici. I corredi funebri delle sepolture sia a cremazione che a inumazione, riferite al villanoviano evoluto, si presentano più abbondanti e lussuosi di quelli del villanoviano antico: col passare del tempo si cominciano a cogliere in essi i segni di una stabile differenziazione sociale. Le capanne e le altre strutture abitative, per quanto è dato evincere dalle tracce emerse dagli scavi e dalle urne conformate a capanna, avevano pianta ellittica, circolare, rettangolare o quadrata. Erano costruite con legno e rifinite con argilla. Avevano una porta sul lato più corto, abbaini sul tetto per l'uscita del fumo del focolare e talvolta anche finestre. La società villanoviana era inizialmente dedita all'agricoltura e all'allevamento, ma progressivamente le attività artigianali specializzate (particolarmente la metallurgia e la ceramica) generarono accumulo di ricchezza e favorirono la stratificazione sociale. INSEDIAMENTI Non sono chiari i rapporti della cultura villanoviana e protovillanoviana con quella delle terramare, sviluppatasi nell'età del bronzo (seconda metà del II millennio a.C.) nella pianura padana, che ugualmente praticava il rito dell'incinerazione, ma con cui manca ogni continuità negli insediamenti. I villaggi terramaricoli vengono abbandonati nel XII sec. a.C. per ragioni ancora sconosciute, mentre gli insediamenti villanoviani risalgono al IX sec. a.C. e quelli protovillanoviani all'XII sec. a.C.. Tuttavia risalendo nel tempo, nella zona geografica occupata nella prima età del ferro dai gruppi portatori dell'aspetto villanoviano, nella tarda e nella piena età del bronzo si riconosce già una presenza permanente di gruppi organizzati sulla base di un rapporto stabile tra insediamenti e territorio. Numerosi abitati occupati nelle fasi non avanzate della media età del bronzo (intorno al XVII sec. a.C.) prosperano attraverso le successive fasi del Bronzo Medio 3 (aspetto stilistico "appenninico"), del Bronzo Recente (aspetto subappenninico del XII sec. a.C.) e del Bronzo Finale. Successivamente le popolazioni tendono ad abbandonare gli altopiani sui quali si erano stanziate nel periodo precedente con finalità essenzialmente difensive, privilegiando pianori e colline adiacenti per poter meglio sfruttare le risorse agricole e minerarie. Gli insediamenti si caratterizzano per una maggior concentrazione e per la loro collocazione in prossimità di vie di comunicazioni naturali e di approdi fluviali, lacustri e marittimi. In Toscana e nel Lazio settentrionale la progressiva crescita demografica e la vicenda dei rapporti, spesso non pacifici, tra i centri abitati protostorici, portò alla nascita di grandi centri abitati, per "sinecismo" (aggregazione) di villaggi anche non vicini tra loro. A partire dal IX sec. a.C. si posero così le basi di quelle che sarebbero state le grandi città etrusche di epoca storica, come Volterra, Chiusi, Vetulonia, Orvieto, Vulci, Roselle, Tarquinia, Cerveteri, Veio. Dal IX all'VIII sec. a.C., specie a causa del successo del nuovo sistema economico e produttivo, si accentuò la consistenza della popolazione di questi grandi centri "protourbani", mentre i diversi gruppi familiari seppellivano i defunti in luoghi posti al di fuori dei limiti dell'abitato e che nel loro insieme formavano una vasta "necropoli". I grandi abitati centrali divennero importanti nodi sulle vie di comunicazione e dettero luogo alla prima forma di stato della penisola. Nel settore padano gli insediamenti prosperano anche grazie al commercio con le regioni più settentrionali. Il centro più importante sembra essere Verucchio, in Romagna.
I reperti nel Museo Pigorini di Verucchio Nel Museo si conservano 409 reperti provenienti dal territorio di Verucchio, acquisiti in quattro differenti momenti tra il 1885 e il 1899, per lo più riferibili alla collezione Cinti- Giusti. I restanti materiali, pervenuti per scambio o dono, sono costituiti da 12 oggetti pertinenti i ripostigli bronzei di Villa Casalecchio e 2 ossuari con relativa ciotola-coperchio provenienti dagli scavi dell’Università di Bologna nel Fondo Ripa.
Museo Civico Archeologico di Verucchio
14 Via Sant'Agostino
I reperti nel Museo Pigorini di Verucchio Nel Museo si conservano 409 reperti provenienti dal territorio di Verucchio, acquisiti in quattro differenti momenti tra il 1885 e il 1899, per lo più riferibili alla collezione Cinti- Giusti. I restanti materiali, pervenuti per scambio o dono, sono costituiti da 12 oggetti pertinenti i ripostigli bronzei di Villa Casalecchio e 2 ossuari con relativa ciotola-coperchio provenienti dagli scavi dell’Università di Bologna nel Fondo Ripa.
Il Museo e Biblioteca Renzi è un museo archeologico del territorio inserito nell’antico borgo medievale di San Giovanni in Galilea, in provincia di Forlì-Cesena. Si tratta di uno dei più antichi musei italiani, fu fondato nel 1885 da don Francesco Renzi, da cui prende il nome e si trova in un contenitore speciale, un edificio incantevole e di grande interesse storico interamente restaurato dal 2005 al 2008; si tratta dell’ex palazzo comunale, che fa parte del complesso architettonico fortificato appartenuto alla Signoria dei Malatesta tra il XIII e il XVII secolo. Il Museo fondato da Don Francesco Renzi è allogato nella Porta Est della rocca di S. Giovanni. Il sacerdote all’inizio era solito inviare al Museo di Rimini gli oggetti rinvenuti; ben presto, però, cominciò ad avere la premura di trattenerli presso la canonica, fino a che nel 1879 venne inaugurato il primo nucleo della collezione. Cominciarono così ad affluire numerosi studiosi. Nel 1883 fu stipulato un importante Concordato con il Comune di Borghi e di lì a poco un celebre archeologo, il senatore G. Fiorelli, prese a cuore le sorti del piccolo Museo favorendone l’erezione in Corpo Morale col titolo di “Museo e Biblioteca Renzi” (R.D. del 5/3/1885). Questo titolo, oltre ad esprimere il genuino carattere museologico nella nascente Istituzione, sottolinea anche una vocazione ben più lungimirante, poiché l’Ente Morale include anche l’archivio storico e la biblioteca, della quale fanno parte centinaia di volumi molto antichi, risalenti persino al Cinquecento. Le collezioni esposte nel museo sono articolate in diverse sezioni: naturalistica, pre-protostorica, romana, delle maioliche, della pieve, medievale e l’antiquarium. Tutti gli oggetti esposti provengono dal territorio limitrofo. San Giovanni in Galilea si erge a 447 m. s.l.m., in una posizione dominante sulla dorsale che unisce trasversalmente le valli dell’Uso e del Rubicone e da cui è possibile godere di una vista mozzafiato. Dopo aver subito duri colpi durante le Guerre Mondiali, negli anni 60’ – 70’ il Museo Renzi vive un nuovo periodo di rinascita, dovuto anche alla scoperta di nuove aree archeologiche tra cui quella della Pieve di San Giovanni in Galilea, oggi musealizzata e teatro di varie iniziative. Negli ultimi decenni il Museo è andato arricchendosi di altri materiali rinvenuti presso alcuni insediamenti protostorici localizzati tra gli anni sessanta e ottanta del XX sec. alla Ripa Calbana e quelli provenienti dagli scavi effettuati nell’area dell’antica Pieve (2004-2009) e nel castello di Borghi (2002-2003). Dal 2012 il Museo è visitabile nel nuovo e moderno allestimento museografico, derivante da un progetto di rivitalizzazione capace di coniugare le istanze di ammodernamento con il proposito di non oscurarne l’essenza originaria.
Museo e Biblioteca Renzi
27 Via Giacomo Matteotti
Il Museo e Biblioteca Renzi è un museo archeologico del territorio inserito nell’antico borgo medievale di San Giovanni in Galilea, in provincia di Forlì-Cesena. Si tratta di uno dei più antichi musei italiani, fu fondato nel 1885 da don Francesco Renzi, da cui prende il nome e si trova in un contenitore speciale, un edificio incantevole e di grande interesse storico interamente restaurato dal 2005 al 2008; si tratta dell’ex palazzo comunale, che fa parte del complesso architettonico fortificato appartenuto alla Signoria dei Malatesta tra il XIII e il XVII secolo. Il Museo fondato da Don Francesco Renzi è allogato nella Porta Est della rocca di S. Giovanni. Il sacerdote all’inizio era solito inviare al Museo di Rimini gli oggetti rinvenuti; ben presto, però, cominciò ad avere la premura di trattenerli presso la canonica, fino a che nel 1879 venne inaugurato il primo nucleo della collezione. Cominciarono così ad affluire numerosi studiosi. Nel 1883 fu stipulato un importante Concordato con il Comune di Borghi e di lì a poco un celebre archeologo, il senatore G. Fiorelli, prese a cuore le sorti del piccolo Museo favorendone l’erezione in Corpo Morale col titolo di “Museo e Biblioteca Renzi” (R.D. del 5/3/1885). Questo titolo, oltre ad esprimere il genuino carattere museologico nella nascente Istituzione, sottolinea anche una vocazione ben più lungimirante, poiché l’Ente Morale include anche l’archivio storico e la biblioteca, della quale fanno parte centinaia di volumi molto antichi, risalenti persino al Cinquecento. Le collezioni esposte nel museo sono articolate in diverse sezioni: naturalistica, pre-protostorica, romana, delle maioliche, della pieve, medievale e l’antiquarium. Tutti gli oggetti esposti provengono dal territorio limitrofo. San Giovanni in Galilea si erge a 447 m. s.l.m., in una posizione dominante sulla dorsale che unisce trasversalmente le valli dell’Uso e del Rubicone e da cui è possibile godere di una vista mozzafiato. Dopo aver subito duri colpi durante le Guerre Mondiali, negli anni 60’ – 70’ il Museo Renzi vive un nuovo periodo di rinascita, dovuto anche alla scoperta di nuove aree archeologiche tra cui quella della Pieve di San Giovanni in Galilea, oggi musealizzata e teatro di varie iniziative. Negli ultimi decenni il Museo è andato arricchendosi di altri materiali rinvenuti presso alcuni insediamenti protostorici localizzati tra gli anni sessanta e ottanta del XX sec. alla Ripa Calbana e quelli provenienti dagli scavi effettuati nell’area dell’antica Pieve (2004-2009) e nel castello di Borghi (2002-2003). Dal 2012 il Museo è visitabile nel nuovo e moderno allestimento museografico, derivante da un progetto di rivitalizzazione capace di coniugare le istanze di ammodernamento con il proposito di non oscurarne l’essenza originaria.

Villaggio preistorico

Almeno quattro abitazioni (per ora), più alcune strutture di servizio, quasi certamente magazzini per attrezzi, animali o per il raccolto dei campi. Un villaggio sorto verso la metà del III millennio a.C. e occupato stabilmente fino alle soglie del 2000 a.C., per questo periodo l’insediamento più ampio e meglio conservato mai scoperto in Romagna. È questa la straordinaria scoperta che gli archeologi della Soprintendenza hanno fatto nelle campagne a ovest di Cesena, in località Provezza, durante i lavori di realizzazione di un nuovo tratto del Canale Emiliano Romagnolo (CER). Il villaggio di Provezza era organizzato in capanne a pianta absidata, con fondazione su canalette e buche di palo portanti, delimitate da fossati o palizzate. Le quattro abitazioni finora scavate, che in antico sorgevano vicino a corsi d’acqua, erano affiancate da strutture minori, di servizio, mentre pozzi e canalizzazioni suggeriscono l’esistenza di un sistema di regolamentazione idrica del suolo. Le pratiche agricole sono attestate dalle tracce di solchi di arature mentre recinti o ripari custodivano gli animali di piccola taglia. Ironia della sorte, questo villaggio rimasto sepolto per circa 4000 anni e così ben regimentato da un punto di vista idrico è venuto alla luce nel 2006 proprio durante i lavori di realizzazione del Canale Emiliano Romagnolo (CER). Gli scavi archeologici sono stati condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna ed hanno interessato sia un tratto della condotta che un primo settore della vasca di sollevamento “Righi”. L’archeologa della Soprintendenza parla di "ritrovamento inaspettato ritrovamento, certamente favorito dalla particolare condizione geo-morfologica della Romagna. Qui, infatti, le aree fertili hanno permesso l’insediarsi di popoli fin dall’antichità, hanno contribuito alla trasformazione di comunità nomadi in sedentarie e hanno supportato lo sviluppo delle tecniche agricole". I dati ottenuti dal minuzioso lavoro di scavo, rilievo e documentazione sono un fondamentale punto di partenza per ricostruire la vita a Cesena e zone limitrofe in epoca preistorica e per avanzare una revisione delle informazioni storiche, archeologiche e culturali dell’intera provincia di Forlì-Cesena. Le prime datazioni al Carbonio 14 ci hanno consentito di collocare l’insediamento di Provezza tra la fine dell’età del Rame e gli inizi dell’età del Bronzo. Grazie alle analisi polliniche è stato anche possibile ricostruire il quadro ambientale in cui sorse il villaggio e risalire alle principali specie coltivate. Questo tipo di ceramica è tipica degli inizi del Bronzo AnticoIl lungo arco di vita del villaggio si ripercuote ovviamente sulle tracce lasciate nel terreno: buche per palo, canalette, fondazioni di capanne che si intersecano e sovrappongono, richiederanno un ulteriore studio per ricostruire la fisionomia del villaggio nelle diverse fasi e il suo preciso inquadramento culturale. In via preliminare, per la fase più antica del sito, alcuni elementi rinvenuti nel sito di Provezza trovano confronto con i materiali della fonte sacra della Panighina di Bertinoro mentre altri, come ad esempio i frammenti di manufatti in ceramica con trattamento della superficie a squame, attestano una funzione di tramite tra le regioni centro-meridionali e la Pianura Padana. Nella fase successiva, da collocarsi agli inizi del Bronzo Antico, la comparsa della tipica ceramica con decorazione di tradizione campaniforme consente di collegare il nostro sito non solo ai noti rinvenimenti della Tanaccia di Brisighella (RA), ma anche agli abitati coevi scoperti, al di là dell’Appennino, in area fiorentina.
Provezza I
Almeno quattro abitazioni (per ora), più alcune strutture di servizio, quasi certamente magazzini per attrezzi, animali o per il raccolto dei campi. Un villaggio sorto verso la metà del III millennio a.C. e occupato stabilmente fino alle soglie del 2000 a.C., per questo periodo l’insediamento più ampio e meglio conservato mai scoperto in Romagna. È questa la straordinaria scoperta che gli archeologi della Soprintendenza hanno fatto nelle campagne a ovest di Cesena, in località Provezza, durante i lavori di realizzazione di un nuovo tratto del Canale Emiliano Romagnolo (CER). Il villaggio di Provezza era organizzato in capanne a pianta absidata, con fondazione su canalette e buche di palo portanti, delimitate da fossati o palizzate. Le quattro abitazioni finora scavate, che in antico sorgevano vicino a corsi d’acqua, erano affiancate da strutture minori, di servizio, mentre pozzi e canalizzazioni suggeriscono l’esistenza di un sistema di regolamentazione idrica del suolo. Le pratiche agricole sono attestate dalle tracce di solchi di arature mentre recinti o ripari custodivano gli animali di piccola taglia. Ironia della sorte, questo villaggio rimasto sepolto per circa 4000 anni e così ben regimentato da un punto di vista idrico è venuto alla luce nel 2006 proprio durante i lavori di realizzazione del Canale Emiliano Romagnolo (CER). Gli scavi archeologici sono stati condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna ed hanno interessato sia un tratto della condotta che un primo settore della vasca di sollevamento “Righi”. L’archeologa della Soprintendenza parla di "ritrovamento inaspettato ritrovamento, certamente favorito dalla particolare condizione geo-morfologica della Romagna. Qui, infatti, le aree fertili hanno permesso l’insediarsi di popoli fin dall’antichità, hanno contribuito alla trasformazione di comunità nomadi in sedentarie e hanno supportato lo sviluppo delle tecniche agricole". I dati ottenuti dal minuzioso lavoro di scavo, rilievo e documentazione sono un fondamentale punto di partenza per ricostruire la vita a Cesena e zone limitrofe in epoca preistorica e per avanzare una revisione delle informazioni storiche, archeologiche e culturali dell’intera provincia di Forlì-Cesena. Le prime datazioni al Carbonio 14 ci hanno consentito di collocare l’insediamento di Provezza tra la fine dell’età del Rame e gli inizi dell’età del Bronzo. Grazie alle analisi polliniche è stato anche possibile ricostruire il quadro ambientale in cui sorse il villaggio e risalire alle principali specie coltivate. Questo tipo di ceramica è tipica degli inizi del Bronzo AnticoIl lungo arco di vita del villaggio si ripercuote ovviamente sulle tracce lasciate nel terreno: buche per palo, canalette, fondazioni di capanne che si intersecano e sovrappongono, richiederanno un ulteriore studio per ricostruire la fisionomia del villaggio nelle diverse fasi e il suo preciso inquadramento culturale. In via preliminare, per la fase più antica del sito, alcuni elementi rinvenuti nel sito di Provezza trovano confronto con i materiali della fonte sacra della Panighina di Bertinoro mentre altri, come ad esempio i frammenti di manufatti in ceramica con trattamento della superficie a squame, attestano una funzione di tramite tra le regioni centro-meridionali e la Pianura Padana. Nella fase successiva, da collocarsi agli inizi del Bronzo Antico, la comparsa della tipica ceramica con decorazione di tradizione campaniforme consente di collegare il nostro sito non solo ai noti rinvenimenti della Tanaccia di Brisighella (RA), ma anche agli abitati coevi scoperti, al di là dell’Appennino, in area fiorentina.
La più grande necropoli eneolitica mai trovata in Emilia-Romagna, un villaggio dell’età del Bronzo strutturato con geometrica precisione e due “ripostigli” di armi e utensili in bronzo, tesoretti antichi sepolti per fede o timore. Preistoria, la civiltà al tempo dei metalli: rame, bronzo, ferro. In assenza di testimonianze scritte, spetta ai reperti narrarci il passato. La preistoria forlivese cala il suo poker d’assi esponendo per la prima volta le più importanti scoperte archeologiche degli ultimi anni. La mostra “Forlì al crocevia della preistoria di Romagna”, allestita ai Musei San Domenico fino al 5 dicembre, è un viaggio nella storia, alla scoperta di quel tempo in cui Forlì era uno dei centri più importanti della regione. Per la sua posizione geografica, questo territorio è stato a lungo un punto d’incontro tra i diversi aspetti culturali provenienti dall’area padana, adriatica e centro-italica. Il percorso della mostra inizia con i corredi delle tombe della necropoli dell'età del Rame (tra il IV e il III millennio a.C.) rinvenuta in località Quattro, alla periferia occidentale di Forlì, prosegue con l'abitato del Bronzo Antico di Via Ravegnana, degli inizi del II millennio a.C., e del coevo ripostiglio di San Lorenzo in Noceto e si conclude con l'esposizione dei 200 bronzi del ripostiglio di Forlimpopoli, deposto agli inizi del IX sec. a. C. Curata da Monica Miari e Annalisa Pozzi, archeologhe della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, e da Luciana Prati, dirigente del servizio Pinacoteca e musei del Comune di Forlì, la mostra è promossa dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna e dal Comune di Forlì, con il sostegno della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì. Nella pianura padana l'età del Rame (o Eneolitico) inizia intorno alla metà del IV millennio a.C. È l’età che vede nascere la ruota e l’aratro, nuove tecniche di fusione e lavorazione del metallo, e una nuova spiritualità, indiziata dalle statue stele e dalle raffigurazioni rupestri costantemente riferite alle armi e al sole. L'eccezionale rinvenimento della necropoli di Via Celletta dei Passeri iscrive Forlì tra i più importanti centri preistorici della regione. La necropoli scoperta nel 2009 alla periferia sud-occidentale della città è, con i suoi 5.000 mq di superficie, la più estesa necropoli eneolitica dell'Emilia-Romagna. Gli scavi hanno messo in luce più di 70 tombe a inumazione, sia maschili che femminili, di adulti, giovani e infanti. Alcune tombe sono state riaperte in antico, asportando parti di ossa: una pratica rituale ben nota nelle necropoli eneolitiche dell’Italia centrale e meridionale, legata al culto degli antenati. Tutti i defunti sono sepolti supini, con le braccia lungo il corpo, e la disposizione delle fosse fa pensare che fossero indicate da segnacoli fuori terra. Il corredo funerario è costituito generalmente da un recipiente ceramico, a forma di brocca o boccale, deposto ai piedi del defunto. Sette tombe si distinguono per la presenza, nel corredo, di asce e pugnali di rame di accurata fattura. La presenza di armi, simboli di potere, rivela il ruolo di individuo di rango, spesso guerriero ma non solo, rivestito da alcuni membri della comunità: un’ipotesi avvalorata dalla presenza contestuale di ornamenti di pregio come il diadema in argento contenuto in una tomba femminile. Circa un terzo delle tombe (23 per la precisione) contenevano punte di freccia in selce, in quantità variabile da una a tre, in alcuni casi forse raccolte in una faretra in materiale deperibile, oggi scomparsa. Dalla necropoli di via Celletta dei Passeri proviene anche lo scheletro di un cucciolo di cane, di età compresa tra i quattro e i sei mesi. Il fenomeno è diffuso nella preistoria italiana, per la tripla valenza di animale “da guardia” posto a difesa del sepolcro, “da compagnia” sepolto con il padrone e “da lavoro”, aiutante di cacciatori e pastori. Qui però la posizione della tomba, proprio al centro del gruppo orientale di sepolture, sottintende piuttosto un valore simbolico e rituale: è assai probabile che il sacrificio del giovane animale avesse per l’antica comunità un preciso significato. L'età del Bronzo si dipana fra gli ultimi secoli del III millennio e il XVII secolo a.C.: è un’epoca di grandi mutamenti socio-economici, caratterizzati dal pieno affermarsi della metallurgia, dalla crescita demografica e dal sorgere di grandi villaggi. Quello dell'antica età del Bronzo (circa 4mila anni fa) rinvenuto in via Ravegnana a Forlì è veramente straordinario. Gli spazi sono organizzati con geometrica regolarità, con ampie abitazioni absidate parallele tra loro, intervallate da aree di servizio con piccoli magazzini, recinti e pozzi. I materiali rinvenuti, se pur scarsi e frammentari, si inseriscono bene nel panorama delle produzioni ceramiche bolognesi e romagnole dell'antica età del Bronzo, con boccaletti a carena bassa, tazzine e vasi decorati a cordoni lisci e anse a gomito. Tra il XVIII e il XVII sec. a.C. si diffonde in Romagna il fenomeno dei “ripostigli”, accumuli di oggetti nascosti in luoghi isolati, con funzione di tesoretti, o deposti presso corsi e specchi d'acqua, come depositi votivi. La mostra ne illustra due, quello di S. Lorenzo in Noceto, datato al Bronzo antico, e quello di Forlimpopoli, datato al Bronzo finale. Quasi mille anni separano i due tesoretti eppure in entrambi i casi, il luogo del rinvenimento sembra indicare che chi li ha sepolti transitasse dalla Penisola verso i valichi alpini o viceversa. Il ripostiglio rinvenuto nel 1674 a S. Lorenzo in Noceto, vicino al fiume Rabbi, doveva essere particolarmente consistente. Al momento della scoperta vantava una quarantina di asce (di cui restano purtroppo soltanto due esemplari) e cinque o sei pugnali a manico fuso, andati tutti dispersi. La documentazione sopravissuta lascia comunque intuire come la complessità tecnologica, il pregio del materiale e la ricchezza della decorazione dei pugnali fossero destinati a esprimere il prestigio dei loro possessori. L'usanza di deporre oggetti in luoghi isolati prosegue anche durante il Bronzo Finale seppur con importanti novità rispetto alle fasi precedenti. I depositi di bronzi sono ora non solo più numerosi ma caratterizzati da un numero maggiore di pezzi, da una notevole varietà di oggetti -dalle armi agli ornamenti e agli utensili– e da una presenza spesso preponderante di reperti frammentari uniti a pani di bronzo e lingotti. Il ripostiglio rinvenuto nel 2003 a Forlimpopoli è costituito da più di 200 pezzi, tutti in bronzo, per un peso complessivo di oltre 13 chili, databili tra il Bronzo Finale e la prima età del Ferro (XI - IX secolo a.C.). Gli oggetti, in origine forse racchiusi in due contenitori in pelle, sono estremamente eterogenei. Ci sono armi -soprattutto asce e coltelli-, impugnature di spada, alcuni strumenti e utensili, vasellame e oggetti da toeletta, Tra i numerosi oggetti di ornamento, come fibule e spilloni per fissare le vesti, spicca un cinturone in lamina metallica, un accessorio dell’abbigliamento femminile di particolare pregio, segno di distinzione sociale. La tipologia di alcuni oggetti (il cinturone, un colatoio e una spada tipo Stockstadt), molto diffusa a nord-est delle Alpi, dalla Slovenia all’Ungheria, suggerisce rapporti importanti con questi territori.
45 người dân địa phương đề xuất
Forli
45 người dân địa phương đề xuất
La più grande necropoli eneolitica mai trovata in Emilia-Romagna, un villaggio dell’età del Bronzo strutturato con geometrica precisione e due “ripostigli” di armi e utensili in bronzo, tesoretti antichi sepolti per fede o timore. Preistoria, la civiltà al tempo dei metalli: rame, bronzo, ferro. In assenza di testimonianze scritte, spetta ai reperti narrarci il passato. La preistoria forlivese cala il suo poker d’assi esponendo per la prima volta le più importanti scoperte archeologiche degli ultimi anni. La mostra “Forlì al crocevia della preistoria di Romagna”, allestita ai Musei San Domenico fino al 5 dicembre, è un viaggio nella storia, alla scoperta di quel tempo in cui Forlì era uno dei centri più importanti della regione. Per la sua posizione geografica, questo territorio è stato a lungo un punto d’incontro tra i diversi aspetti culturali provenienti dall’area padana, adriatica e centro-italica. Il percorso della mostra inizia con i corredi delle tombe della necropoli dell'età del Rame (tra il IV e il III millennio a.C.) rinvenuta in località Quattro, alla periferia occidentale di Forlì, prosegue con l'abitato del Bronzo Antico di Via Ravegnana, degli inizi del II millennio a.C., e del coevo ripostiglio di San Lorenzo in Noceto e si conclude con l'esposizione dei 200 bronzi del ripostiglio di Forlimpopoli, deposto agli inizi del IX sec. a. C. Curata da Monica Miari e Annalisa Pozzi, archeologhe della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, e da Luciana Prati, dirigente del servizio Pinacoteca e musei del Comune di Forlì, la mostra è promossa dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna e dal Comune di Forlì, con il sostegno della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì. Nella pianura padana l'età del Rame (o Eneolitico) inizia intorno alla metà del IV millennio a.C. È l’età che vede nascere la ruota e l’aratro, nuove tecniche di fusione e lavorazione del metallo, e una nuova spiritualità, indiziata dalle statue stele e dalle raffigurazioni rupestri costantemente riferite alle armi e al sole. L'eccezionale rinvenimento della necropoli di Via Celletta dei Passeri iscrive Forlì tra i più importanti centri preistorici della regione. La necropoli scoperta nel 2009 alla periferia sud-occidentale della città è, con i suoi 5.000 mq di superficie, la più estesa necropoli eneolitica dell'Emilia-Romagna. Gli scavi hanno messo in luce più di 70 tombe a inumazione, sia maschili che femminili, di adulti, giovani e infanti. Alcune tombe sono state riaperte in antico, asportando parti di ossa: una pratica rituale ben nota nelle necropoli eneolitiche dell’Italia centrale e meridionale, legata al culto degli antenati. Tutti i defunti sono sepolti supini, con le braccia lungo il corpo, e la disposizione delle fosse fa pensare che fossero indicate da segnacoli fuori terra. Il corredo funerario è costituito generalmente da un recipiente ceramico, a forma di brocca o boccale, deposto ai piedi del defunto. Sette tombe si distinguono per la presenza, nel corredo, di asce e pugnali di rame di accurata fattura. La presenza di armi, simboli di potere, rivela il ruolo di individuo di rango, spesso guerriero ma non solo, rivestito da alcuni membri della comunità: un’ipotesi avvalorata dalla presenza contestuale di ornamenti di pregio come il diadema in argento contenuto in una tomba femminile. Circa un terzo delle tombe (23 per la precisione) contenevano punte di freccia in selce, in quantità variabile da una a tre, in alcuni casi forse raccolte in una faretra in materiale deperibile, oggi scomparsa. Dalla necropoli di via Celletta dei Passeri proviene anche lo scheletro di un cucciolo di cane, di età compresa tra i quattro e i sei mesi. Il fenomeno è diffuso nella preistoria italiana, per la tripla valenza di animale “da guardia” posto a difesa del sepolcro, “da compagnia” sepolto con il padrone e “da lavoro”, aiutante di cacciatori e pastori. Qui però la posizione della tomba, proprio al centro del gruppo orientale di sepolture, sottintende piuttosto un valore simbolico e rituale: è assai probabile che il sacrificio del giovane animale avesse per l’antica comunità un preciso significato. L'età del Bronzo si dipana fra gli ultimi secoli del III millennio e il XVII secolo a.C.: è un’epoca di grandi mutamenti socio-economici, caratterizzati dal pieno affermarsi della metallurgia, dalla crescita demografica e dal sorgere di grandi villaggi. Quello dell'antica età del Bronzo (circa 4mila anni fa) rinvenuto in via Ravegnana a Forlì è veramente straordinario. Gli spazi sono organizzati con geometrica regolarità, con ampie abitazioni absidate parallele tra loro, intervallate da aree di servizio con piccoli magazzini, recinti e pozzi. I materiali rinvenuti, se pur scarsi e frammentari, si inseriscono bene nel panorama delle produzioni ceramiche bolognesi e romagnole dell'antica età del Bronzo, con boccaletti a carena bassa, tazzine e vasi decorati a cordoni lisci e anse a gomito. Tra il XVIII e il XVII sec. a.C. si diffonde in Romagna il fenomeno dei “ripostigli”, accumuli di oggetti nascosti in luoghi isolati, con funzione di tesoretti, o deposti presso corsi e specchi d'acqua, come depositi votivi. La mostra ne illustra due, quello di S. Lorenzo in Noceto, datato al Bronzo antico, e quello di Forlimpopoli, datato al Bronzo finale. Quasi mille anni separano i due tesoretti eppure in entrambi i casi, il luogo del rinvenimento sembra indicare che chi li ha sepolti transitasse dalla Penisola verso i valichi alpini o viceversa. Il ripostiglio rinvenuto nel 1674 a S. Lorenzo in Noceto, vicino al fiume Rabbi, doveva essere particolarmente consistente. Al momento della scoperta vantava una quarantina di asce (di cui restano purtroppo soltanto due esemplari) e cinque o sei pugnali a manico fuso, andati tutti dispersi. La documentazione sopravissuta lascia comunque intuire come la complessità tecnologica, il pregio del materiale e la ricchezza della decorazione dei pugnali fossero destinati a esprimere il prestigio dei loro possessori. L'usanza di deporre oggetti in luoghi isolati prosegue anche durante il Bronzo Finale seppur con importanti novità rispetto alle fasi precedenti. I depositi di bronzi sono ora non solo più numerosi ma caratterizzati da un numero maggiore di pezzi, da una notevole varietà di oggetti -dalle armi agli ornamenti e agli utensili– e da una presenza spesso preponderante di reperti frammentari uniti a pani di bronzo e lingotti. Il ripostiglio rinvenuto nel 2003 a Forlimpopoli è costituito da più di 200 pezzi, tutti in bronzo, per un peso complessivo di oltre 13 chili, databili tra il Bronzo Finale e la prima età del Ferro (XI - IX secolo a.C.). Gli oggetti, in origine forse racchiusi in due contenitori in pelle, sono estremamente eterogenei. Ci sono armi -soprattutto asce e coltelli-, impugnature di spada, alcuni strumenti e utensili, vasellame e oggetti da toeletta, Tra i numerosi oggetti di ornamento, come fibule e spilloni per fissare le vesti, spicca un cinturone in lamina metallica, un accessorio dell’abbigliamento femminile di particolare pregio, segno di distinzione sociale. La tipologia di alcuni oggetti (il cinturone, un colatoio e una spada tipo Stockstadt), molto diffusa a nord-est delle Alpi, dalla Slovenia all’Ungheria, suggerisce rapporti importanti con questi territori.

Scavi

LA PALETNOLOGIA IN ROMAGNA TRA XIX E XX SECOLO VITTORIO CAVANI Storia della Paletnologia, Romagna, Brizio, Alessandro Tosi, Fattori, Santarelli, Ugolini, Ferretti, Zangheri, De Gasperi, Mornig, Zannoni, Boschi, Medri, Verucchio, San Marino, Panighina di Bertinoro, Lugo di Romagna, Villa San Martino, Cappucinini, Museo Storia Naturale Romagna, Tanaccia di Brisighella, Villa Abbondanzi, Colle Persolino, Pieve di Corleto, Camerano, Poggio Berni. KEYWORDS Storia della Paletnologia, Romagna, Brizio, Alessandro Tosi, Fattori, Santarelli, Ugolini, Ferretti, Zangheri, De Gasperi, Mornig, Zannoni, Boschi, Medri, Verucchio, San Marino, Panighina di Bertinoro, Lugo di Romagna, Villa San Martino, Cappucinini, Museo Storia Naturale Romagna, Tanaccia di Brisighella, Villa Abbondanzi, Colle Persolino, Pieve di Corleto, Camerano, Poggio Berni. RIASSUNTO Nel corso dell'ultimo decennio del XIX secolo e nei primi anni di quello successivo gli studi di archeologia preistorica raggiungono in Romagna il proprio apice. In tale arco cronologico si svolgono le principali ricerche paletnologiche sul territorio: l'avvio degli scavi nelle necropoli e nell'insediamento villanoviano di Verucchio, la conclusione delle indagini a Villanova di Forlì e alla Bertarina di Vecchiazzano e la scoperta del pozzo sacro della Panighina di Bertarina. La scomparsa dei protagonisti di questa fortunata stagione (Brizio, Santarelli, Zannoni, Ugolini) coincide con un progressivo declino qualitativo della produzione pubblicistica di carattere locale, nonostante un'intensa attività condotta sul campo da studiosi di estrazione non accademica caratterizzi il periodo compreso fra le due guerre mondiali. PREMESSA È opinione diffusa che la grande stagione di studi paletnologici a carattere locale che ha interessato l'Emilia e in minor misura la Romagna conosca nell'ultimo decennio del XIX secolo contemporaneamente il proprio apice e l'inizio di un repentino declino (GUIDI 1988, p. 52; PERONI 1992, pp. 33-35).2 La revisione preliminare della letteratura paletnologica riguardante il territorio romagnolo nel periodo compreso all'incirca fra il 1890 e il 1943, se da un lato conferma in parte una simile evoluzione, dall'altro ha mostrato il persistere di uno spiccato interesse verso le antichità pre-protostoriche che oltrepassa ampiamente tali limiti cronologici corrispondenti per lo più alla scomparsa dei pionieri della disciplina.3 Appassionati dilettanti, studiosi locali, archeologi e naturalisti della più varia estrazione culturale rappresentano i 1 Dipartimento di Archeologia. Università di Bologna; vittorio.cavani@studio.unibo.it 2 Per una disamina degli studi di paletnologia nella seconda metà del XIX secolo in ambito emiliano si rimanda a PERONI 1996 e DESITTERE 1997 con bibliografia precedente. 3 Nella non ampia produzione storiografica riguardante il tema in esame, si ricordano per una trattazione a livello generale i recenti contributi di M. TARANTINI sulle tendenze dell'archeologia preistorica italiana (TARANTINI 1998-2000; Id. 2008). protagonisti di questa fase caratterizzata da eventi storico-politici di non indifferente rilevanza e da un progressivo processo di istituzionalizzazione e codificazione dell'archeologia preistorica, definito da alcuni di “accentramento” (GUIDI 1988, pp. 52-55), negli anni immediatamente successivi al Congresso di Bologna, che si caratterizza per una lento ma inarrestabile processo di decadimento intellettuale delle città minori, determinato dalla politica culturale di forte centralizzazione del nuovo Stato unitario (PERONI 1992, p. 35).4 Trovare un filo conduttore che accomuni la congerie di ricerche condotte in maniera a dir poco eterogenea è impresa assai ardua. Quasi sempre gli impulsi all'intraprendere indagini sul terreno o al costituire enti museali di “storia patria” sono strettamente legati alle circostanze di rinvenimenti fortuiti a seguito di lavori agricoli o di urbanizzazione, in un periodo che vede una decisa spinta più o meno condivisibile alla modernizzazione dei centri storici, oppure agli interessi dei singoli senza che esistesse alla base un progetto scientifico organicamente elaborato, se si eccettua il caso praticamente isolato degli scavi di Verucchio, non a caso promossi da una personalità “alloctona” dello spessore di Edoardo Brizio.5 Come è stato scritto, la storia della paletnologia romagnola può essere definita come “una storia di uomini, tout court” (TRIPPONI 1984, p. 515). Uomini che recitarono un ruolo secondario nello svolgersi delle vicende scientifiche del tempo, vivendo solamente di riflesso le grandi questioni che infiammavano il dibattito archeologico: in primis, per rimanere in ambito prettamente locale, la cronologia relativa o per dire in altro modo la successione etnica del popolamento della territorio cispadano orientale nel corso della preistoria, che ebbe come causa scatenante la celebre prolusione del Brizio tenuta all'Università di Bologna nel 1876 in occasione del proprio insediamento (BRIZIO 1877). Lo schema da questi elaborato sulla scorta dell'esame delle fonti classiche, assegnava l'affermarsi della civiltà terramaricola ai Liguri, a cui sarebbero subentrati in ordine cronologico gli Umbri “villanoviani”, gli Etruschi e i Galli, diede luogo, infatti, ad un'accesa disputa a cui parteciparono i maggiori esponenti della nascente paletnologia: Gozzadini, Zannoni e per la sfera più propriamente preistorica Scarabelli, Pigorini, Strobel, Chierici, Helbig (SASSATELLI 1984, pp. 386-390). La teoria briziana venne sviluppata in successive memorie riguardanti l'edizione di complessi quali la Grotta del Farneto (Brizio 1882), esplorata in quegli anni dall'Orsoni, e il villaggio della Prevosta presso Imola (Brizio 1884), nelle quali attribuì al popolo ligure anche l'occupazione delle grotte e dei villaggi “a fondi di capanna”. Tale teorema, inoltre, andava trovando fittizia conferma nel progredire delle ricerche nel Bolognese e nella stessa Romagna, sopratutto per merito di Antonio Santarelli, al quale si deve l'indagine sistematica di alcuni ampi insediamenti come la Bertarina di Vecchiazzano, che andava mettendo in luce un sistema abitativo differente rispetto alle “palafitte” emiliane, pur in un'apparente omogeneità del patrimonio della cultura materiale, identificata secondo i canoni dell'epoca essenzialmente sulla base della ricorrenza delle classiche anse “cilindro rette, lunate, ad orecchia, canaliculate” (da una lettera di E. Brizio a G. Scarabelli del 12 agosto 1892, pubblicata da MORICO 2007, p. 39). Le tesi del Brizio influenzarono profondamente il pensiero e l'opera degli studiosi di archeologia romagnola per un arco di tempo spropositamente ampio, si può dire sino alla pubblicazione definitiva dello Zangheri riguardante l'abitato dei Cappuccinini di Forlì (ZANGHERI 1962). Questa ascendenza fu rafforzata sul campo dai risultati delle indagini condotte da Giuseppe Scarabelli a partire dal 1891 nel villaggio dell'età del Bronzo di San Giuliano di Toscanella, con il quale il Brizio instaurò un fruttuoso sodalizio, non privo tuttavia di qualche lato oscuro.6 Fu infatti a causa di dissidi ufficialmente sempre celati, che l'edizione completa degli scavi dello Scarabelli vide la luce ad oltre mezzo secolo di distanza (SCARABELLI 1962). Non vi è dubbio che lo scavo di San Giuliano, rappresenti un termine di paragone fondamentale nella definizione concettuale di una “Stazione a Capanne”, priva di “tutte le numerose caratteristiche asserite proprie delle Terramare”, 4 Verosimilmente una simile politica di accentramento fu fra le cause primarie del declino qualitativo ma non quantitativo degli studi di preistoria in una regione, la Romagna, posta in posizione periferica rispetto alle principali istituzioni di tutela e di ricerca (Direzione degli Scavi di Antichità e Università) e dove l'attività degli enti museali era strettamente legata al fervore dei singoli studiosi. I musei di Rimini, Forlì ed Imola, solo per citare i maggiori, conobbero, infatti, un lungo periodo di stasi e di declino, non espletando a volte, come nel caso della costituzione del Museo di Storia Naturale dello Zangheri, nemmeno la propria funzione di deposito dei materiali archeologici rinvenuti nel territorio. L'attardamento scientifico e culturale che caratterizzò gli studi di antichità preistoriche in Romagna trova riscontro anche nellea constatazione che le numerose pubblicazioni di carattere paletnologico pubblicate nell'arco cronologico preso in esame, se si prescindono quelle di Santarelli e di Ugolini, trovarono spazio solamente in periodici di tiratura locale o in monografie di scarsa diffusione sul territorio nazionale. 5 La ricorrenza del centenario della morte del Brizio ha sollecitato la città di Bra in collaborazione con il Museo Civico Archeologico di Bologna a farsi promotrice dell'organizzazione di una mostra commemorativa che ha ripercorso la parabola biografica e scientifica dello studioso piemontese (AA.VV. 2007). Un quadro esaustivo della sua attività archeologica è possibile ritrovare in Sassatelli 1984 e Ghirardini 1909. 6 Nuova luce sui rapporti fra i due archeologi sulla base della revisione dell'epistolario intercorso e sulle circostanze che impedirono allo Scarabelli di pubblicare la relazione completa degli scavi a San Giuliano di Toscanella, è stata gettata recentemente da G. Morico (MORICO 2007). 167 soprattutto “indizi di palafitte da reggere impalcati.”7 (SCARABELLI 1962, p. 31) Le campagne di scavo protrattesi sino al 1904 rappresentarono, inoltre, un'occasione propizia d'incontro fra diversi paletnologi più o meno celebri, tra cui il già citato Santarelli, spesso ritratto in fotografie accanto allo Scarabelli assiso, in una sorta di rappresentazione icastica del rapporto di subordinazione meramente scientifica che s'instaurò fra i due (fig. 1). Un secondo dato che emerge con chiarezza è l'assoluta estraneità dei cultori di paletnologia romagnola all'incipiente dibattito incentrato sulla cosiddetta reazione antipigoriniana nella quale confluivano due correnti tra loro antitetiche: quella “mediterraneista” e quella “primitivista”.8 Nella discussione, che si poneva ad ulteriore sanzione della progressiva separazione tra studi storico-filologici e studi naturalistici (GUIDI 1988, p. 53), prese parte attivamente solamente il solito Brizio sostenendo l'autoctonia dei Liguri, abitatori delle terramare (PERONI 1992, p. 23), e suggestionando di conseguenza implicitamente i coevi colleghi romagnoli.9 A costituire lo sfondo della querelle, fra le altre questioni, vi era il tentativo di articolare con maggiore rigore, da un lato le fasi più antiche della preistoria, dall'altro di delineare il passaggio fra Neolitico ed età del Bronzo, classificato a suo tempo dal Chierici con il neologismo “eneolitico” (CHIERICI 1884). La difficoltà da parte degli studiosi locali di recepire simili novità concettuali si manifesta in tutta la sua emblematicità, ad esempio, nello interpretazione crono- culturale dei pochi complessi di difficile attribuzione secondo i canoni ortodossi dell'archeologia tardo- ottocentesca,\ come nel caso del pozzo sacro della Panighina di Bertinoro, nello studio del quale si cimentarono Santarelli e Luigi Maria Ugolini senza riuscire a cogliere con chiarezza i momenti iniziali di frequentazione del sito. 7 Sule diverse interpretazioni riguardanti la struttura delle capanne avanzate da Scarabelli, scettico sulla reale presenza di “fondi di capanna” a San Giuliano di Toscanella, e da Brizio, che costituirono, fra gli altri, un motivo della mancata edizione dello scavo si veda la retrospettiva di M. Pacciarelli sulla parabola archeologica dell'archeologo imolese (PACCIARELLI 1996, pp. 57-63). 8 Per un'accurata disamina degli avvenimenti caratterizzanti i primi decenni del XX secolo che condussero sostanzialmente al costituirsi della cosiddetta “scuola fiorentina” ed alla fondazione dell'Istituto Italiano di Paleontologia Umana (IIPU), dalla cui scissione nacque l'attuale Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (IIPP), si veda TARANTINI 2004. 9 La corrente “mediterraneista” ebbe sviluppi alquanto deleteri negli studi di archeologia preistorica contrapponendo al rigetto della teoria pigoriniana un approccio antipositivistico che rappresentò una delle cause principali di una prolungata fase di provincialismo della paletnologia italiana, dopo la fervide stagione di studi della seconda metà dell'Ottocento (Peroni 1996a, pp. 16 e 18).
LA BERTARINA 22 Luglio 2014 di Forlipedia Nel 1883 Antonio Santarelli avviò lo scavo archeologico della Bertarina di Forlì, uno scavo che portò alla luce un villaggio di capanne riconducibile, con molta probabilità, alla civiltà terramaricola. La Bertarina, anche se sconosciuta ai più, esiste ancora. E’ un luogo particolare situato a Vecchiazzano alla confluenza dei fiumi Montone e Rabbi nei primissimi innalzamenti di quota della campagna forlivese verso la morbida collina e verso il monte Poggiolo. E’ un’antica (quaternaria) terrazza pianeggiante la cui morfologia, grazie alle acque che la circondavano, la rendeva facilmente difendibile. La struttura idraulico-difensiva del triangolo di terra era completata a monte da un grande fossato che nell’800 misurava 11 metri di larghezza e quasi 5 di profondità. Per un semplice orientamento vogliamo indicare la terrazza come il triangolo di terreno che si estende oltre l’ospedale Morgagni Pierantoni e i suo vecchio parcheggio, verso Forlì. La parte più arretrata di quella terrazza fu proprio interessata dal progetto di realizzazione dell’allora Sanatorio durante il ventennio. Durante la campagna di scavi condotta dal tenace archeologo forlivese fino al 1897, furono portati alla luce 142 buche di circa 50 centimetri di diametro ad una distanza tra loro di circa 80 centimetri. Erano i fori di antichi pali con finale a punta che, conficcati nel terreno vergine per meno di un metro, 3.200 anni fa componevano la struttura portante di una serie di capanne in un’area che il Santarelli misurò in 17.000 mq. A quella cifra si dovevano aggiungere 4.000 metri quadrati di terreno erosi di fiumi. Si scoprirono anche numerose buche coniche e a fondo di catino e focolari ricche di materiale fittile, carboni e ceneri. I reperti trovati nell’importante insediamento sono mediamente databili al “Bronzo recente”, cronologicamente al 1300 a.C. Di particolare interesse sono i bronzi: alcuni pugnali, spilloni, una pinzetta: tutti relativamente più recenti. Alcuni elementi in osso, infine, consentono – come spiega Meri Massi Pasi sul volume Quando Forlì non C’era – interessanti confronti con l’area terramaricola emiliano-marchigiana. Numerosi eventi, tra i quali ovviamente le guerre, anno portato alla dispersione gran parte dei riferimenti redatti dal Santarelli. Una ventina di anni fa, su impegno della Soprintendenza, grazie a vecchie pubblicazioni a disegni e appunti, sono state ripristinate la maggior parte delle schede. Il materiale superstite è custodito presso i musei civici forlivesi.
Bertarina
LA BERTARINA 22 Luglio 2014 di Forlipedia Nel 1883 Antonio Santarelli avviò lo scavo archeologico della Bertarina di Forlì, uno scavo che portò alla luce un villaggio di capanne riconducibile, con molta probabilità, alla civiltà terramaricola. La Bertarina, anche se sconosciuta ai più, esiste ancora. E’ un luogo particolare situato a Vecchiazzano alla confluenza dei fiumi Montone e Rabbi nei primissimi innalzamenti di quota della campagna forlivese verso la morbida collina e verso il monte Poggiolo. E’ un’antica (quaternaria) terrazza pianeggiante la cui morfologia, grazie alle acque che la circondavano, la rendeva facilmente difendibile. La struttura idraulico-difensiva del triangolo di terra era completata a monte da un grande fossato che nell’800 misurava 11 metri di larghezza e quasi 5 di profondità. Per un semplice orientamento vogliamo indicare la terrazza come il triangolo di terreno che si estende oltre l’ospedale Morgagni Pierantoni e i suo vecchio parcheggio, verso Forlì. La parte più arretrata di quella terrazza fu proprio interessata dal progetto di realizzazione dell’allora Sanatorio durante il ventennio. Durante la campagna di scavi condotta dal tenace archeologo forlivese fino al 1897, furono portati alla luce 142 buche di circa 50 centimetri di diametro ad una distanza tra loro di circa 80 centimetri. Erano i fori di antichi pali con finale a punta che, conficcati nel terreno vergine per meno di un metro, 3.200 anni fa componevano la struttura portante di una serie di capanne in un’area che il Santarelli misurò in 17.000 mq. A quella cifra si dovevano aggiungere 4.000 metri quadrati di terreno erosi di fiumi. Si scoprirono anche numerose buche coniche e a fondo di catino e focolari ricche di materiale fittile, carboni e ceneri. I reperti trovati nell’importante insediamento sono mediamente databili al “Bronzo recente”, cronologicamente al 1300 a.C. Di particolare interesse sono i bronzi: alcuni pugnali, spilloni, una pinzetta: tutti relativamente più recenti. Alcuni elementi in osso, infine, consentono – come spiega Meri Massi Pasi sul volume Quando Forlì non C’era – interessanti confronti con l’area terramaricola emiliano-marchigiana. Numerosi eventi, tra i quali ovviamente le guerre, anno portato alla dispersione gran parte dei riferimenti redatti dal Santarelli. Una ventina di anni fa, su impegno della Soprintendenza, grazie a vecchie pubblicazioni a disegni e appunti, sono state ripristinate la maggior parte delle schede. Il materiale superstite è custodito presso i musei civici forlivesi.
LA “TERRAMARA” DI FAENZA: LA RICERCHE DI ARCHEOLOGIA PREISTORICA NEL FAENTINO DA ANTONIO ZANNONI AD ANTONIO MEDRI La ricerca paletnologica nel territorio circostante Faenza, si avviò con qualche anno di ritardo rispetto alle prime indagini che avevano interessato la Vena del Gesso. Isolata rimase per lungo tempo la scoperta avvenuta nel 1887 di un insediamento dell'età del Bronzo nelle vicinanze di Villa Abbondanzi di cui diede notizia l'ingegner Antonio Zannoni, il celebre indagatore del sottosuolo della città di Bologna. Emblematica per i principi dell'archeologia preistorica dell'eopoca la breve comunicazione apparsa su le “Notizie degli Scavi”: “Nei pressi della villa Abbondanzi 18 Un 'approfondita disamina della storia delle ricerche ed una esauriente e aggiornata bibliografia del sito si trova in BERTANI 1996; PACCIARELLI 1996a; PACCIARELLI, TEEGEN 1997 19 La localizzazione dello scatto fu in una prima pubblicazione commemorativa dello Zangheri (SIMEONE 1985, p. 13), erroneamente identificata con la grotta della Tanaccia di Brisighella (BASSI, COSTA 1995, pp. 107-108). 183 in Faenza fu riconosciuta una vasta Terramara, per le diligenti osservazioni dei signori Federico Gallegati e Gaetano Panzavolta. Ne diede notizia al Ministero il sig. ingegnere Antonio Zannoni, che si recò sul luogo della scoperta, ed esaminò gli oggetti raccolti nello strato nerastro, che finora fu esplorato. Consistono questi in frammenti dei soliti vasi, con ornamentazione ad unghia ed a cordoni, in anse lunate, cornute e cunicolari; ai quali fittili vanno aggiunti alcuni pezzi di armi litiche.” (ZANNONI 1887) In una successiva memoria Zannoni precisava:”Ecco dunque dopo la Terramara del Parmense, del Modenese, di Bologna: dopo le scoperte del Castellaccio e della Prevosta sull'Imolese, della Bertarina e di Meldola sul Forlivese, mostrarsi, com'ebbi a congetturare, l'esistenza di questo popolo tra Imola e Forlì, e più particolarmente tra il Senio e il Lamone, anzi alquanto all'ovest di Faenza: ecco ora altro anello della catena di quella primitiva civiltà nostra, anteriore non solo agli Etruschi, sibbene agli stessi Umbri, i Liguri.” (ZANNONI 1887a) Dei rinvenimenti di Meldola aveva dato sintetica comunicazione lo stesso archeologo qualche anno prima (ZANNONI 1876, p. 441). Esito vano ebbero i reiterati tentativi di estendere le ricerche nei Fondi Graziola e Talana, nonostante nel 1896 diversi compaesani avessero cercato di reperire finanziamenti all'uopo. Le ultime notizie fornite dallo Zannoni risalgono al 1910 e riportano di ulteriore raccolte di materiale ad opera del Gallegati, senza che si fosse dato avvio a scavi regolari. Negli stessi anni anche Achille Boschi “un appassionato ricercatore delle località più antiche del nostro territorio” visitava la località, annotando in un manoscritto riportato dal Medri che l'insediamento era “molto superficiale” e restituì solo un esiguo numero di materiali. Dall'adiacente fondo della Fornace dei Cappuccini furono recuperate anche 2 spade molto massiccie di bronzo, acquistate dal prof. Federigo Argnani, direttore della Pinacoteca Comunale di Faenza ed ispettore onorario dei Monumenti (MEDRI 1943, pp. 16-18), a cui si deve per primo il recupero e la conservazione di materiali archeologici non epigrafici del territorio faentino (RIGHINI CANTELLI 1980, p. 29). I rinvenimenti di “fondi di capanna” si susseguirono nell'area sino almeno al 1941. Dopo la segnalazione del Medri alla Soprintendenza delle ultime scoperte nei pressi della Fornace, Fernando Malavolti eseguì nel 1943 un piccolo saggio di scavo (SCARANI 1960, p. 316), individuando un probabile insediamento occupato tra l'Eneolitico e l'antica età del Bronzo (RIGHINI CANTELLI 1980, p. 64). Al nome del Boschi è legata la scoperta degli insediamenti di Pieve Corleto e soprattutto di Colle Persolino, il più importante complesso preistorico faentino rinvenuto nella prima metà del XX secolo (fig. 11). Fu anche l'unico sito di cui rimane notizia edita, ossia una lettera al Pigorini che venne pubblicata nel “Bullettino di Paletnologia Italiana”. “La stazione di Persolino, egli scrive, si compone di parecchi fondi di capanne disposti in linee parallele per circa 250 m. da est a ovest. Alcuni sono profondissimi e contengono fittili assai rozzi per forma e per impasto, grosse fuseruole, molte schegge di piromaca senza traccia di oggetti di bronzo; in altri invece, che sono poco profondi, si hanno fittili meglio fatti, fuseruole più piccole e avanzi di metallo.” (PIGORINI 1903, p. 38). Copiosa fu la raccolta di reperti litici dalla “strato di coltura”, fra cui “frammenti di coltellini di ossidiana”, proveniente secondo lo studioso dai gessi delle vicine colline. Complessivamente i reperti furono interpretati come “prodotti industriali dell'età neolitica, delle prime età dei metalli e della romana.” (PIGORINI 1903, p. 39) Nello stesso anno il Brizio accompagnato da Augusto Negrioli visitò il sito, esaminando anche la collezione del Boschi, in particolare della “stazione preistorica” di Pieve di Corleto assegnata ad un periodo “arcaico” dell'età del Bronzo in cui erano frequentate “la grotta del Farnè e la stazione del Castellaccio” (ZUFFA 1954, pp. 590-591). La relazione, rimasta a lungo inedita, risulta particolarmente preziosa per la particolareggiata descrizione della ceramica del Persolino. “Dal breve cenno che di questi oggetti ha dato lo stesso Sig. Boschi, risulta che la stazione ... appartiene al periodo neolitico avendo fornito grande quantità di oggetti di selce” La presenza di numerose “anse cilindro-rette”, “anse a disco oranto da ambo i lati di tubercoli” e anse che “finiscono a testa di animali” come negli insediamenti di Prevosta, Toscanella e della Bertarina, suggerisce però all'accademico bolognese “che anche qui, come in parecchie altre stazioni a fondi di capanne, che per l'impianto risalgono bensì all'età neolitica, ma durarono anche nell'età del bronzo, si hanno gli elementi cartteristici delle due età.” (ZUFFA 1954, p. 590). Ancora nel 1910 un antiquario di Faenza offriva in vendita allo Stato una quantità non indifferente di materiali provenienti da un fondo del Colle del Persolino, di cui era usufruttaria la Marchesa Diotallevi. Ghirardini inviò sul posto l'ispettore Negrioli che compilò un dettagliato rapporto conservato nell'archivio del Museo Civico di Bologna (MEDRI 1943, p. 23). Sfortunatamente gran parte delle ricerche di Achille Boschi sono rimaste inedite e descritte solamente nel corpus dei manoscritti privati che donò insieme alla sua collezione archeologica a più riprese a partire dal 1919 all'odierno Museo Internazionale delle Ceramiche, fondato nel 1908 su iniziativa di Gaetano Ballardini, già ispettore onorario dei Monumenti dopo la scomparsa dell'Argnani, a seguito dell'organizzazione di un'esposizione internazionale celebrativa del terzo centenario della nascita del faentino Evangelista Torricelli (BOJANI 2001, p. 11). Collocata nella XX sala, andò a formare la cosiddetta “Mostra delle ceramiche preistoriche, fondazione 'Achille Boschi'” (LIVERANI 1936, p. 5). Comprendeva reperti provenienti da Colle Persolino, Pieve di Corleto, Basiago nonchè materiale litico e ceramico delle Marche, “Abruzzi”, Puglia e Calabria, in gran parte raccolto dallo stesso Boschi. Nel 184 1936 gran parte della raccolta doveva ancora essere sistemata e studiata (LIVERANI 1936, p. 30). Purtroppo i pesanti bombardamenti delle seconda guerra mondiale che colpirono Faenza causarono una perdita notevole dei materiali e del fondo d'archivio. Le indagini del Boschi si interruppero a causa del suo allontanamento dalla città natale. A farsi promotori delle indagini sul territorio furono da un lato il già citato Ballardini, mosso dall'interesse strettamente documentario di raccogliere nel Museo delle Ceramiche i reperti fittili risalenti ai periodi più antichi della storia della città, e dell'altro sopratutto Antonio Medri, direttore del Credito Romagnolo di Faenza ed ispettore onorario dal 1941. Al Medri si deve la pubblicazione di due opere ancor'oggi fondamentali per la storia dell'archeologia faentina (MEDRI 1908; Idem 1943). Le monografie raccolgono nel dettaglio, infatti, gli appunti compilati dallo studiozo negli anni delle proprie indagini ed i risultati delle ricerche d'archivio condotte minuziosamente negli archivi della Soprintendenza, del Museo Civico di Bologna e del Comune di Faenza (RIGHINI CANTELLI 1980, pp. 31-32).
51 người dân địa phương đề xuất
Faenza
51 người dân địa phương đề xuất
LA “TERRAMARA” DI FAENZA: LA RICERCHE DI ARCHEOLOGIA PREISTORICA NEL FAENTINO DA ANTONIO ZANNONI AD ANTONIO MEDRI La ricerca paletnologica nel territorio circostante Faenza, si avviò con qualche anno di ritardo rispetto alle prime indagini che avevano interessato la Vena del Gesso. Isolata rimase per lungo tempo la scoperta avvenuta nel 1887 di un insediamento dell'età del Bronzo nelle vicinanze di Villa Abbondanzi di cui diede notizia l'ingegner Antonio Zannoni, il celebre indagatore del sottosuolo della città di Bologna. Emblematica per i principi dell'archeologia preistorica dell'eopoca la breve comunicazione apparsa su le “Notizie degli Scavi”: “Nei pressi della villa Abbondanzi 18 Un 'approfondita disamina della storia delle ricerche ed una esauriente e aggiornata bibliografia del sito si trova in BERTANI 1996; PACCIARELLI 1996a; PACCIARELLI, TEEGEN 1997 19 La localizzazione dello scatto fu in una prima pubblicazione commemorativa dello Zangheri (SIMEONE 1985, p. 13), erroneamente identificata con la grotta della Tanaccia di Brisighella (BASSI, COSTA 1995, pp. 107-108). 183 in Faenza fu riconosciuta una vasta Terramara, per le diligenti osservazioni dei signori Federico Gallegati e Gaetano Panzavolta. Ne diede notizia al Ministero il sig. ingegnere Antonio Zannoni, che si recò sul luogo della scoperta, ed esaminò gli oggetti raccolti nello strato nerastro, che finora fu esplorato. Consistono questi in frammenti dei soliti vasi, con ornamentazione ad unghia ed a cordoni, in anse lunate, cornute e cunicolari; ai quali fittili vanno aggiunti alcuni pezzi di armi litiche.” (ZANNONI 1887) In una successiva memoria Zannoni precisava:”Ecco dunque dopo la Terramara del Parmense, del Modenese, di Bologna: dopo le scoperte del Castellaccio e della Prevosta sull'Imolese, della Bertarina e di Meldola sul Forlivese, mostrarsi, com'ebbi a congetturare, l'esistenza di questo popolo tra Imola e Forlì, e più particolarmente tra il Senio e il Lamone, anzi alquanto all'ovest di Faenza: ecco ora altro anello della catena di quella primitiva civiltà nostra, anteriore non solo agli Etruschi, sibbene agli stessi Umbri, i Liguri.” (ZANNONI 1887a) Dei rinvenimenti di Meldola aveva dato sintetica comunicazione lo stesso archeologo qualche anno prima (ZANNONI 1876, p. 441). Esito vano ebbero i reiterati tentativi di estendere le ricerche nei Fondi Graziola e Talana, nonostante nel 1896 diversi compaesani avessero cercato di reperire finanziamenti all'uopo. Le ultime notizie fornite dallo Zannoni risalgono al 1910 e riportano di ulteriore raccolte di materiale ad opera del Gallegati, senza che si fosse dato avvio a scavi regolari. Negli stessi anni anche Achille Boschi “un appassionato ricercatore delle località più antiche del nostro territorio” visitava la località, annotando in un manoscritto riportato dal Medri che l'insediamento era “molto superficiale” e restituì solo un esiguo numero di materiali. Dall'adiacente fondo della Fornace dei Cappuccini furono recuperate anche 2 spade molto massiccie di bronzo, acquistate dal prof. Federigo Argnani, direttore della Pinacoteca Comunale di Faenza ed ispettore onorario dei Monumenti (MEDRI 1943, pp. 16-18), a cui si deve per primo il recupero e la conservazione di materiali archeologici non epigrafici del territorio faentino (RIGHINI CANTELLI 1980, p. 29). I rinvenimenti di “fondi di capanna” si susseguirono nell'area sino almeno al 1941. Dopo la segnalazione del Medri alla Soprintendenza delle ultime scoperte nei pressi della Fornace, Fernando Malavolti eseguì nel 1943 un piccolo saggio di scavo (SCARANI 1960, p. 316), individuando un probabile insediamento occupato tra l'Eneolitico e l'antica età del Bronzo (RIGHINI CANTELLI 1980, p. 64). Al nome del Boschi è legata la scoperta degli insediamenti di Pieve Corleto e soprattutto di Colle Persolino, il più importante complesso preistorico faentino rinvenuto nella prima metà del XX secolo (fig. 11). Fu anche l'unico sito di cui rimane notizia edita, ossia una lettera al Pigorini che venne pubblicata nel “Bullettino di Paletnologia Italiana”. “La stazione di Persolino, egli scrive, si compone di parecchi fondi di capanne disposti in linee parallele per circa 250 m. da est a ovest. Alcuni sono profondissimi e contengono fittili assai rozzi per forma e per impasto, grosse fuseruole, molte schegge di piromaca senza traccia di oggetti di bronzo; in altri invece, che sono poco profondi, si hanno fittili meglio fatti, fuseruole più piccole e avanzi di metallo.” (PIGORINI 1903, p. 38). Copiosa fu la raccolta di reperti litici dalla “strato di coltura”, fra cui “frammenti di coltellini di ossidiana”, proveniente secondo lo studioso dai gessi delle vicine colline. Complessivamente i reperti furono interpretati come “prodotti industriali dell'età neolitica, delle prime età dei metalli e della romana.” (PIGORINI 1903, p. 39) Nello stesso anno il Brizio accompagnato da Augusto Negrioli visitò il sito, esaminando anche la collezione del Boschi, in particolare della “stazione preistorica” di Pieve di Corleto assegnata ad un periodo “arcaico” dell'età del Bronzo in cui erano frequentate “la grotta del Farnè e la stazione del Castellaccio” (ZUFFA 1954, pp. 590-591). La relazione, rimasta a lungo inedita, risulta particolarmente preziosa per la particolareggiata descrizione della ceramica del Persolino. “Dal breve cenno che di questi oggetti ha dato lo stesso Sig. Boschi, risulta che la stazione ... appartiene al periodo neolitico avendo fornito grande quantità di oggetti di selce” La presenza di numerose “anse cilindro-rette”, “anse a disco oranto da ambo i lati di tubercoli” e anse che “finiscono a testa di animali” come negli insediamenti di Prevosta, Toscanella e della Bertarina, suggerisce però all'accademico bolognese “che anche qui, come in parecchie altre stazioni a fondi di capanne, che per l'impianto risalgono bensì all'età neolitica, ma durarono anche nell'età del bronzo, si hanno gli elementi cartteristici delle due età.” (ZUFFA 1954, p. 590). Ancora nel 1910 un antiquario di Faenza offriva in vendita allo Stato una quantità non indifferente di materiali provenienti da un fondo del Colle del Persolino, di cui era usufruttaria la Marchesa Diotallevi. Ghirardini inviò sul posto l'ispettore Negrioli che compilò un dettagliato rapporto conservato nell'archivio del Museo Civico di Bologna (MEDRI 1943, p. 23). Sfortunatamente gran parte delle ricerche di Achille Boschi sono rimaste inedite e descritte solamente nel corpus dei manoscritti privati che donò insieme alla sua collezione archeologica a più riprese a partire dal 1919 all'odierno Museo Internazionale delle Ceramiche, fondato nel 1908 su iniziativa di Gaetano Ballardini, già ispettore onorario dei Monumenti dopo la scomparsa dell'Argnani, a seguito dell'organizzazione di un'esposizione internazionale celebrativa del terzo centenario della nascita del faentino Evangelista Torricelli (BOJANI 2001, p. 11). Collocata nella XX sala, andò a formare la cosiddetta “Mostra delle ceramiche preistoriche, fondazione 'Achille Boschi'” (LIVERANI 1936, p. 5). Comprendeva reperti provenienti da Colle Persolino, Pieve di Corleto, Basiago nonchè materiale litico e ceramico delle Marche, “Abruzzi”, Puglia e Calabria, in gran parte raccolto dallo stesso Boschi. Nel 184 1936 gran parte della raccolta doveva ancora essere sistemata e studiata (LIVERANI 1936, p. 30). Purtroppo i pesanti bombardamenti delle seconda guerra mondiale che colpirono Faenza causarono una perdita notevole dei materiali e del fondo d'archivio. Le indagini del Boschi si interruppero a causa del suo allontanamento dalla città natale. A farsi promotori delle indagini sul territorio furono da un lato il già citato Ballardini, mosso dall'interesse strettamente documentario di raccogliere nel Museo delle Ceramiche i reperti fittili risalenti ai periodi più antichi della storia della città, e dell'altro sopratutto Antonio Medri, direttore del Credito Romagnolo di Faenza ed ispettore onorario dal 1941. Al Medri si deve la pubblicazione di due opere ancor'oggi fondamentali per la storia dell'archeologia faentina (MEDRI 1908; Idem 1943). Le monografie raccolgono nel dettaglio, infatti, gli appunti compilati dallo studiozo negli anni delle proprie indagini ed i risultati delle ricerche d'archivio condotte minuziosamente negli archivi della Soprintendenza, del Museo Civico di Bologna e del Comune di Faenza (RIGHINI CANTELLI 1980, pp. 31-32).
Sepolture protostoriche presso la grotta della Tanaccia La grotta conosciuta con il nome di Tanaccia di Brisighella costituisce una delle cavità più importanti della Vena del Gesso romagnola. All'indiscutibile interesse geologico e speleologico, la Tanaccia unisce il fatto di essere stata sede di antichissime frequentazioni umane, infatti venne utilizzata a scopo funerario dalla piena età del Rame all'antica età del Bronzo. Importante sia per la sua estensione ed articolazione, sia per i diversi aspetti del carsismo che vi sono documentati, la grotta della Tanaccia si apre a circa 2 km da Brisighella con un grande vano iniziale da cui incominciarono intorno al 1930 le prime esplorazioni archeologiche. A più riprese vi sono stati recuperati resti archeologici (ceramiche, manufatti litici, reperti metallici) e scheletrici databili fra l’Eneolitico e l’antica età del Bronzo. In questo periodo gli anfratti della Tanaccia furono utilizzati a scopo funerario, in sintonia con analoghe manifestazioni coeve rientranti nel fenomeno delle cosiddette “grotticelle sepolcrali”.
Grotta "La Tanaccia"
SP23
Sepolture protostoriche presso la grotta della Tanaccia La grotta conosciuta con il nome di Tanaccia di Brisighella costituisce una delle cavità più importanti della Vena del Gesso romagnola. All'indiscutibile interesse geologico e speleologico, la Tanaccia unisce il fatto di essere stata sede di antichissime frequentazioni umane, infatti venne utilizzata a scopo funerario dalla piena età del Rame all'antica età del Bronzo. Importante sia per la sua estensione ed articolazione, sia per i diversi aspetti del carsismo che vi sono documentati, la grotta della Tanaccia si apre a circa 2 km da Brisighella con un grande vano iniziale da cui incominciarono intorno al 1930 le prime esplorazioni archeologiche. A più riprese vi sono stati recuperati resti archeologici (ceramiche, manufatti litici, reperti metallici) e scheletrici databili fra l’Eneolitico e l’antica età del Bronzo. In questo periodo gli anfratti della Tanaccia furono utilizzati a scopo funerario, in sintonia con analoghe manifestazioni coeve rientranti nel fenomeno delle cosiddette “grotticelle sepolcrali”.
Insediamento neolitico di Fornace Gattelli, Lugo L’insediamento neolitico di Lugo è stato individuato nel 1982 al centro del bacino di estrazione della Fornace Gattelli. Le ricerche sistematiche, intraprese dalla Soprintendenza Archeologica dell’Emilia-Romagna nel 1983 e proseguite successivamente, hanno consentito d'individuare depositi antropici attribuibili ad un insediamento di età neolitica. Oltre alle tracce dell'abitato, sono stati rinvenuti strumenti litici (bulini, grattatoi, perforatori, troncature e romboidi), industria ceramica (scodelle, tazze, vasi, giare, fiaschi), spesso decorata da motivi lineari o più complessi, e resti organici (legni e semi). I reperti ceramici e litici raccolti all’atto del rinvenimento hanno permesso sin d’allora di attribuire l’insediamento al Neolitico Antico e più precisamente alla Cultura di Fiorano. Le condizioni di conservazione dei livelli archeologici si sono rivelate eccezionali: infatti i depositi antropici furono sigillati da argille alluvionali subito dopo l’abbandono, ciò ha consentito di recuperare, oltre ai dati relativi all’alzato e all’impianto delle strutture, anche una grande quantità di resti organici, come legni e semi. E' stato possibile anche delineare alcuni aspetti della topografia del villaggio: l’organizzazione degli spazi, la distribuzione e la relazione reciproca tra i vari tipi di strutture sono, per il Neolitico, problematiche poco note, rispetto alle quali il sito di Lugo offre potenzialità inedite di conoscenza. Qui infatti sono state individuate tracce del sistema di perimetrazione dell'abitato (un'imponente palizzata connessa a un piccolo fossato e un argine), una capanna rettangolare e strutture accessorie. Quello di Lugo rappresenta, ad oggi, l'insediamento più orientale della cultura di Fiorano, attiva in Emilia intorno alla metà del VI millennio a.C., diffusasi verso est sia seguendo il corso del Po, sia la linea pedemontana appenninica, penetrando i territori tradizionalmente occupati dai gruppi della Ceramica Impressa medio-adriatica, mantenendo con questa dinamici rapporti e contatti. LE PRIME RICERCHE PALETNOLOGICHE NELLA PIANURA RAVENNATE Ugolini si dedicò negli ultimi anni della sua giovane vita anche allo studio della preistoria del territorio della pianura ravennate sino ad allora praticamente inesplorata, fatta eccezione per un'isolata segnalazione del Gozzadini sul recupero di materiale ascrivibile all'epoca dei “trogloditi”, assai simile, secondo lo studioso bolognese, a quello della Grotta del Farneto (GOZZADINI 1884, pp. 178-179). I primi rinvenimenti di reperti preistorici nel circondario di Lugo di Romagna, si devono alla sistematica opera di controllo dell'escavazione di pozzi idraulici da parte di un appassionato locale autodidatta Edmondo Ferretti che “sovente concorse con mezzi propri per approfondire i pozzi e, comunque, per allargare il campo delle ricerche.” (UGOLINI 1931, p. 191 n. 1) (fig. 7) Al Ferretti si deve una preliminare edizione dei risultati delle proprie indagini già verso la fine degli anni '20 del secolo scorso (FERRETTI 1927), e l'impulso a costituire una piccola raccolta custodita temporaneamente parte presso il municipio e parte presso il locale Istituto Trisi. Pochi mesi dopo la collezione fu trasferita al Museo Nazionale di Ravenna (MURATORI 1937, p. 18), ed esposti nella seconda sala del piano superiore, dove rimarranno anche dopo la riapertura in occasione del nuovo allestimento del 1950 (BOVINI 1951, pp. 25-26). 14 Per un'accurata analisi del concetto di Eneolitico nella paletnologia italiana si rimanda a Ferrari, Steffè cds. 15 Oltre alla già citata bibliografia essenziale riguardante le missioni archeologiche in Albania, a proposito del soggiorno maltese si ricorda il recente contributo di Pessina e Vella (PESSINA, VELLA 2005). 16 Un giudizio abbastanza cauto sull'operato delle missioni italiane, e di riflesso su L. M. Ugolini, a Malta negli anni '30 del secolo scorso è invece sinteticamente espresso da E. Anati (ANATI 1988, pp. 22-23). Una parziale revisione del complesso dei materiali raccolti venne curata in un secondo momento dall'Ugolini, che si dilungò, in particolare, sulla ceramica, senza soffermarsi sul notevole esemplare di “mazzuolo litico” di porfirite rinvenuto in località San Sebastiano essendo “noto che questo tipo di oggetti, sorto verso la fine dell'età della pietra, continuò ad usarsi anche verso la fine dell'età del bronzo e, in qualche regione, anche durante quella del ferro.” (Ugolini 1931, p. 198) I restanti frammenti fittili, sulla base del confronto con altri siti romagnoli sembravano inquadrarsi, a parere dell'autore, fra la piena età del Bronzo e la transizione alla prima età del Ferro. La frammentarietà dei reperti rendeva però ardua un'interpretazione crono-tipologica. Immancabile è il tentativo di giungere ad un'attribuzione etnico-culturale delle “stazioni” lughesi che sembra tuttavia prescindere dal classico schema del Brizio. “Questi oggetti si presentano di aspetto modesto, ma assurgono ad un valore scientifico abbastanza grande. Grazie ad essi sappiamo – cosa del tutto ignorata fin qui – che anche nel Lughese esistevano degli abitatori, molto prima che in quella contrada albeggiasse il periodo storico propriamente detto. Inoltre, uscendo dalla ristretta storia di Lugo, per entrare in quella della storia della Romagna, ora noi siamo in grado di poter affermare che in questa nostra terra era sparsa una facies culturale che si potrebbe dire omogenea. Come conseguenza di ciò ne deriva che le genti primitive sparse entro i confini dell'odierna Romagna, durante l'età del bronzo, più o meno appartenessero ad uno stesso ceppo etnico. Ciò, almeno, se ad affinità di prodotti culturali si vuole dare il valore di corrispondenza etnica. E in realtà, per i tempi preistorici, generalmente la cultura ha peculiarità così nette e precise, che due stazioni aventi la stessa facies di civiltà possono essere ritenute appartenenti a genti di uno stesso ceppo etnico. Naturalmente, allo stato delle nostre conoscenze, sarebbe prematuro fare il nome di questa gente.” (UGOLINI 1931, pp. 199-200) Nell'insieme Edmondo Ferretti fu figura di fondamentale importanza per la ricerca archeologica nel territorio lughese. Di professione tipografo, fu attento osservatore delle numerose trasformazioni urbanistiche che interessarono la cittadina romagnola tra XIX e XX secolo. Nel 1919 diede alle stampe il suo primo lavoro “I predecessori lughesi” in cui si narrava del rinvenimento di “alcune palafitte, su cui ... era infisso, o posato, un largo tavolato di pioppo bianco” in occasione della realizzazione di un pozzo nei locali dell'allora esistente albergo San Marco (FERRETTI 1919, p. 12) Tracce di altre strutture palafitticole si sarebbero trovate costruendo le fondamenta del Palazzo delle Poste, non lontano dal primo pozzo. Secondo recenti revisioni parrebbe ragionevole escludere un'attribuzione alla preistoria di tali scoperte, essendo usuale trovare a tale profondità nel perimetro urbano di Lugo strutture insediative medioevali (TAMBURINI, CANI 1991, p. 92). Qualche anno dopo Ferretti pubblicò un secondo opuscolo, già citato, “Una stazione neolitica nel territorio di Lugo”, nel quale, al di là di alcune osservazioni che oggi sembrano superate, si coglie sicuramente il grande pregio di aver riconosciuto una fase di frequentazione antecedente all'occupazione romana, quest'ultima, peraltro, all'epoca non era ancora completamente accertata. Dal 1925 intraprese scavi nell'insediamento dell'età del Bronzo di Villa San Martino ed nell'abitato della successiva età del Ferro in località San Sebastiano, parzialmente finanziati con i proventi di un premio ricevuto a seguito di un saggio storico-linguistico sugli Etruschi (FERRETTI 1928) (fig. 8). Le indagini si protrassero sino al 1934 con l'apertura di numerosi saggi su un'ampia estensione. Non esiste pubblicazione organica dei risultati ottenuti. Una ricerca 179 d'archivio ha permesso di rileggere alcune relazioni manoscritte inedite dello stesso Ferretti, dalle quali emerge la volontà di riconoscere a Lugo una successione stratigrafica analoga ad altre cittadine romagnole, come Imola e Faenza, al fine di dimostrare l'esistenza di una “unità etnica e spirituale della Romagna”, nella convinzione che un solo popolo si fosse stanziato nel territorio dalla preistoria alla romanità (TAMBURINI, CANI 1991, p. 107).
17 người dân địa phương đề xuất
Lugo
17 người dân địa phương đề xuất
Insediamento neolitico di Fornace Gattelli, Lugo L’insediamento neolitico di Lugo è stato individuato nel 1982 al centro del bacino di estrazione della Fornace Gattelli. Le ricerche sistematiche, intraprese dalla Soprintendenza Archeologica dell’Emilia-Romagna nel 1983 e proseguite successivamente, hanno consentito d'individuare depositi antropici attribuibili ad un insediamento di età neolitica. Oltre alle tracce dell'abitato, sono stati rinvenuti strumenti litici (bulini, grattatoi, perforatori, troncature e romboidi), industria ceramica (scodelle, tazze, vasi, giare, fiaschi), spesso decorata da motivi lineari o più complessi, e resti organici (legni e semi). I reperti ceramici e litici raccolti all’atto del rinvenimento hanno permesso sin d’allora di attribuire l’insediamento al Neolitico Antico e più precisamente alla Cultura di Fiorano. Le condizioni di conservazione dei livelli archeologici si sono rivelate eccezionali: infatti i depositi antropici furono sigillati da argille alluvionali subito dopo l’abbandono, ciò ha consentito di recuperare, oltre ai dati relativi all’alzato e all’impianto delle strutture, anche una grande quantità di resti organici, come legni e semi. E' stato possibile anche delineare alcuni aspetti della topografia del villaggio: l’organizzazione degli spazi, la distribuzione e la relazione reciproca tra i vari tipi di strutture sono, per il Neolitico, problematiche poco note, rispetto alle quali il sito di Lugo offre potenzialità inedite di conoscenza. Qui infatti sono state individuate tracce del sistema di perimetrazione dell'abitato (un'imponente palizzata connessa a un piccolo fossato e un argine), una capanna rettangolare e strutture accessorie. Quello di Lugo rappresenta, ad oggi, l'insediamento più orientale della cultura di Fiorano, attiva in Emilia intorno alla metà del VI millennio a.C., diffusasi verso est sia seguendo il corso del Po, sia la linea pedemontana appenninica, penetrando i territori tradizionalmente occupati dai gruppi della Ceramica Impressa medio-adriatica, mantenendo con questa dinamici rapporti e contatti. LE PRIME RICERCHE PALETNOLOGICHE NELLA PIANURA RAVENNATE Ugolini si dedicò negli ultimi anni della sua giovane vita anche allo studio della preistoria del territorio della pianura ravennate sino ad allora praticamente inesplorata, fatta eccezione per un'isolata segnalazione del Gozzadini sul recupero di materiale ascrivibile all'epoca dei “trogloditi”, assai simile, secondo lo studioso bolognese, a quello della Grotta del Farneto (GOZZADINI 1884, pp. 178-179). I primi rinvenimenti di reperti preistorici nel circondario di Lugo di Romagna, si devono alla sistematica opera di controllo dell'escavazione di pozzi idraulici da parte di un appassionato locale autodidatta Edmondo Ferretti che “sovente concorse con mezzi propri per approfondire i pozzi e, comunque, per allargare il campo delle ricerche.” (UGOLINI 1931, p. 191 n. 1) (fig. 7) Al Ferretti si deve una preliminare edizione dei risultati delle proprie indagini già verso la fine degli anni '20 del secolo scorso (FERRETTI 1927), e l'impulso a costituire una piccola raccolta custodita temporaneamente parte presso il municipio e parte presso il locale Istituto Trisi. Pochi mesi dopo la collezione fu trasferita al Museo Nazionale di Ravenna (MURATORI 1937, p. 18), ed esposti nella seconda sala del piano superiore, dove rimarranno anche dopo la riapertura in occasione del nuovo allestimento del 1950 (BOVINI 1951, pp. 25-26). 14 Per un'accurata analisi del concetto di Eneolitico nella paletnologia italiana si rimanda a Ferrari, Steffè cds. 15 Oltre alla già citata bibliografia essenziale riguardante le missioni archeologiche in Albania, a proposito del soggiorno maltese si ricorda il recente contributo di Pessina e Vella (PESSINA, VELLA 2005). 16 Un giudizio abbastanza cauto sull'operato delle missioni italiane, e di riflesso su L. M. Ugolini, a Malta negli anni '30 del secolo scorso è invece sinteticamente espresso da E. Anati (ANATI 1988, pp. 22-23). Una parziale revisione del complesso dei materiali raccolti venne curata in un secondo momento dall'Ugolini, che si dilungò, in particolare, sulla ceramica, senza soffermarsi sul notevole esemplare di “mazzuolo litico” di porfirite rinvenuto in località San Sebastiano essendo “noto che questo tipo di oggetti, sorto verso la fine dell'età della pietra, continuò ad usarsi anche verso la fine dell'età del bronzo e, in qualche regione, anche durante quella del ferro.” (Ugolini 1931, p. 198) I restanti frammenti fittili, sulla base del confronto con altri siti romagnoli sembravano inquadrarsi, a parere dell'autore, fra la piena età del Bronzo e la transizione alla prima età del Ferro. La frammentarietà dei reperti rendeva però ardua un'interpretazione crono-tipologica. Immancabile è il tentativo di giungere ad un'attribuzione etnico-culturale delle “stazioni” lughesi che sembra tuttavia prescindere dal classico schema del Brizio. “Questi oggetti si presentano di aspetto modesto, ma assurgono ad un valore scientifico abbastanza grande. Grazie ad essi sappiamo – cosa del tutto ignorata fin qui – che anche nel Lughese esistevano degli abitatori, molto prima che in quella contrada albeggiasse il periodo storico propriamente detto. Inoltre, uscendo dalla ristretta storia di Lugo, per entrare in quella della storia della Romagna, ora noi siamo in grado di poter affermare che in questa nostra terra era sparsa una facies culturale che si potrebbe dire omogenea. Come conseguenza di ciò ne deriva che le genti primitive sparse entro i confini dell'odierna Romagna, durante l'età del bronzo, più o meno appartenessero ad uno stesso ceppo etnico. Ciò, almeno, se ad affinità di prodotti culturali si vuole dare il valore di corrispondenza etnica. E in realtà, per i tempi preistorici, generalmente la cultura ha peculiarità così nette e precise, che due stazioni aventi la stessa facies di civiltà possono essere ritenute appartenenti a genti di uno stesso ceppo etnico. Naturalmente, allo stato delle nostre conoscenze, sarebbe prematuro fare il nome di questa gente.” (UGOLINI 1931, pp. 199-200) Nell'insieme Edmondo Ferretti fu figura di fondamentale importanza per la ricerca archeologica nel territorio lughese. Di professione tipografo, fu attento osservatore delle numerose trasformazioni urbanistiche che interessarono la cittadina romagnola tra XIX e XX secolo. Nel 1919 diede alle stampe il suo primo lavoro “I predecessori lughesi” in cui si narrava del rinvenimento di “alcune palafitte, su cui ... era infisso, o posato, un largo tavolato di pioppo bianco” in occasione della realizzazione di un pozzo nei locali dell'allora esistente albergo San Marco (FERRETTI 1919, p. 12) Tracce di altre strutture palafitticole si sarebbero trovate costruendo le fondamenta del Palazzo delle Poste, non lontano dal primo pozzo. Secondo recenti revisioni parrebbe ragionevole escludere un'attribuzione alla preistoria di tali scoperte, essendo usuale trovare a tale profondità nel perimetro urbano di Lugo strutture insediative medioevali (TAMBURINI, CANI 1991, p. 92). Qualche anno dopo Ferretti pubblicò un secondo opuscolo, già citato, “Una stazione neolitica nel territorio di Lugo”, nel quale, al di là di alcune osservazioni che oggi sembrano superate, si coglie sicuramente il grande pregio di aver riconosciuto una fase di frequentazione antecedente all'occupazione romana, quest'ultima, peraltro, all'epoca non era ancora completamente accertata. Dal 1925 intraprese scavi nell'insediamento dell'età del Bronzo di Villa San Martino ed nell'abitato della successiva età del Ferro in località San Sebastiano, parzialmente finanziati con i proventi di un premio ricevuto a seguito di un saggio storico-linguistico sugli Etruschi (FERRETTI 1928) (fig. 8). Le indagini si protrassero sino al 1934 con l'apertura di numerosi saggi su un'ampia estensione. Non esiste pubblicazione organica dei risultati ottenuti. Una ricerca 179 d'archivio ha permesso di rileggere alcune relazioni manoscritte inedite dello stesso Ferretti, dalle quali emerge la volontà di riconoscere a Lugo una successione stratigrafica analoga ad altre cittadine romagnole, come Imola e Faenza, al fine di dimostrare l'esistenza di una “unità etnica e spirituale della Romagna”, nella convinzione che un solo popolo si fosse stanziato nel territorio dalla preistoria alla romanità (TAMBURINI, CANI 1991, p. 107).
Museo Archeologico Antonio Santarelli- Forlì Si forma a Forlì nell'ultimo trentennio dell'Ottocento ad opera di Antonio Santarelli, che diede organicità e precisi indirizzi di sviluppo ad un'eterogenea raccolta antiquaria, effettuando importanti recuperi nel territorio e vaste campagne di scavo nei siti della Bertarina di Vecchiazzano, Villanova, S. Varano. Il museo è oggi collocato al piano terra del palazzo del Merenda; l’ultimo ordinamento (1960), con allestimento anche del lapidario si deve a Guido A. Mansuelli, Giancarlo Susini, Raffaele Turci. Ne è previsto il trasferimento nel complesso conventuale di S. Domenico.L'itinerario relativo all'antica demografia forlivese copre un ampio ventaglio cronologico che dal Paleolitico inferiore si spinge alla fine dell'evo antico. Illustrano uno fra i più remoti insediamenti umani della penisola italiana e dell'Europa intera i manufatti litici del giacimento di Monte Poggiolo, cui si attribuisce un'età di circa 800 mila anni dal presente. Rinvenimenti storici, in buona parte effettuati dal Santarelli, e recenti acquisizioni, descrivono lo sviluppo delle culture che si sono avvicendate nei dintorni di Forlì e nelle vallate circostanti dal Neolitico alla fase della celtizzazione della pianura padana. Per il Neolitico rappresentative sono le strutture insediative di Vecchiazzano e del sito di Via Decio Raggi. Manufatti litici, ritrovati un po' ovunque lungo le vallate del Montone, del Rabbi, del Ronco-Bidente, costituiscono un buon indice della frequentazione del territorio durante l'Eneolitico. I nuclei di maggiore rilievo sono riferibili agli stanziamenti dell'età del Bronzo di Bertarina di Vecchiazzano, Coriano e al ripostiglio di San Lorenzo in Noceto. Alcuni importanti reperti fanno capo al momento terminale della prima età del Ferro, come la stele di S. Varano e la tomba del guerriero di Carpena, che ha restituito una panoplia completa. Il sepolcreto di Rocca S. Casciano documenta invece la presenza dei Celti alla fine del IV sec. a.C., mostrando l'acquisizione da parte di queste genti del costume etrusco e la pronta integrazione con le comunità locali. La sequenza diacronica prosegue con le testimonianze relative alla Forum Livii romana sia di epoca repubblicana che di età imperiale, provenienti da diverse zone dell'odierno tessuto urbano e rappresentate specialmente da oggetti di uso quotidiano (ceramica comune e da mensa, pesi da telaio, lucerne, vetri, suppellettili in bronzo) e da alcuni mosaici in bianco e nero a motivi geometrici (I sec. d.C.). Il museo ospita infine alcuni straordinari pezzi di epoca teodoriciana (VI sec.): il mosaico policromo a motivi marini dell'aula absidata della grandiosa "villa" di Meldola e il cosiddetto ritratto in marmo di Alarico e una grande fibbia d'argento dorato decorata a punzone e a sbalzo. La raccolta lapidaria romana accoglie, insieme ad elementi architettonici, frammenti di mosaici, laterizi ed altri manufatti, iscrizioni recuperate nel centro urbano, in particolare la targa del monumento funebre di C. Castricio, e nei 'vici' e 'pagi' del territorio. Un'ultima sezione è dedicata alle iscrizioni del vicino municipio di Forum Popili (Forlimpopoli). LE RICERCHE DI ANTONIO SANTARELLI L'ultimo decennio del XIX secolo segna un progressivo rallentamento degli scavi e delle ricerche condotte da Antonio Santarelli. Intorno al 1890 l'archeologo forlivese fu incaricato dal Municipio di Sarsina di organizzare in un unico ambiente “tutti i marmi letterati non che diversi pezzi architettonici e d'ornato ed i più minuti cimelii” recuperati sino ad allora nel locale territorio (SANTARELLI 1890a, p. 1). Nell'opera di allestimento lo studioso forlivese si avvalse della collaborazione del regio ispettore del Circondario di Cesena, l'avvocato Nazzareno Trovanelli. Nella breve guida edita a supporto del visitatore trova ampio spazio la descrizione degli oltre “70 marmi scritti tra cippi, lapidi e frammenti di esse esistenti in luoghi diversi” mentre “del periodo preistorico e pre-romano sono state finora povere le scoperte: ma il fatto secondo me ha spiegazione nella mancanza di scavi sistematici: perocchè indizi di quell'età sono già alcune fibule ed una grossa armilla di bronzo: e non è supponibile che in un centro così importante dell'Umbria antica designata col nome speciale di Tribu Sapinia cercando bene non siano a rinvenirsi le capanne e le tombe degli italici primitivi.” (SANTARELLI 1890a, p. 6). L'inaugurazione del Museo generò grande entusiasmo presso i cittadini “incominciando da Monsignor Vescovo e dall'arcidiacono fino a modesti operai” desiderosi “di fare onore alla collezione patria”. Contemporaneamente Santarelli portò a termine l'edizione definitiva degli scavi nell'abitato della seconda età del Ferro di Villanova di Forlì (MASSI PASI 1996 con bibliografia precedente), mosso dalla volontà di illustrare dettagliatamente un insediamento da lui ritenuto ascrivibile alla prima età del Ferro dal momento che “è noto ai paletnologi, che mentre abbondano in Italia e fuori necropoli” di tale periodo “sono invece molto rari da noi gli abituri di quelle genti.” (SANTARELLI 1891, p. 300). Nel 1888, dopo aver dato una prima comunicazione delle indagini iniziate sin dal 1881 grazie “al sussidio ottenuto dalla Direzione Generale delle Antichità e dal Municipio forlivese”, riprese gli scavi individuando 14 fondi di capanne , su cui non si dilungò, limitandosi ad esporne le particolarità più rilevanti unitamente alla descrizione dei reperti ceramici, litici e osteologici che oggi si definirebbero diagnostici. Nel complesso dei frammenti fittili “non si offersero avanzi di quei vasi d'argilla impura, a pareti quasi dritte, a fondo molto grosso che s'incontrarono nella vicina terranuova di Vecchiazzano: solo due anse larghe piatte, richiamano quell'età.” (SANTARELLI 1891, p. 301). Immancabile alla conclusione della breve memoria il tentativo di definire da un punto di vista etnico le popolazioni che frequentarono il sito. L'autore attribuì agli Umbri “un grosso nucleo di cimelî” mescolati ai quali “erano avanzi di Etruschi e di Galli” (SANTARELLI 1891, p. 314). Per spiegare una presunta arcaicità o meglio arretratezza culturale di questa civiltà rispetto allo splendore di Bologna ed Este, concordava con l'Orsi che sosteneva che i “due grandi centri ove l'industria umbra salì al suo massimo sviluppo erano ... in condizioni eccezionali, pel contatto con la coltura del Mediterraneo ... Il nostro villaggio invece rappresenta la civiltà umbra in uno stato di decadenza, ove pur perdurando nella ceramica qualcuna delle antiche forme più semplici connesse ai bisogni della vita, sono già formati ed amalgamati elementi estranei”. A questo nucleo definito dal Santarelli “italico” si sovrapposero dapprima gli Etruschi, che però non sembra “vi fermassero stabile possesso nè che fossero sempre ostili ai primitivi coloni” ai quali “un maggior colpo recava ... l'arrivo dei Galli” (SANTARELLI 1891, pp. 316-317), come testimonierebbe la presenza nel vicino fondo Guarini di numerosi “vasi cenerognoli ... specialità della ceramica gallica ... Dalle esposte cose emerge dunque la conferma che nella stazione di Villanova abbiamo un miscuglio di genti varie ... accomunate e strette insieme dalla necessità del suolo, dal conforme modo di abitare, dai vincoli di amistà o dipendenza, ma più che altro dal grave pericolo che era per tutte il fatidico volo delle aquile romane.” (SANTARELLI 1891, pp. 322-323) Con gli stessi finanziamenti Santarelli concluse anche le campagne esplorative nell'insediamento dell'età del Bronzo della Bertarina di Vecchiazzano, senza riuscire a pubblicare un'organica monografia (SANTARELLI 1889; Id. 1890; Id. 1893). Negli anni seguenti l'attività di ricerca del Santarelli tende ad affievolirsi, limitandosi per lo più ad un controllo minuzioso dei rinvenimenti che si susseguivano nel circondario di Forlì in qualità di regio ispettore onorario (BALDINI, PAGLIANI 1980, p. 108), ed editi per lo più nella serie delle “Notizie degli Scavi”. (SANTARELLI 1898). Fra i principali si ricorda la scoperta “in un campo della parrocchia di Ranchio, non lungi da Sarsina” di un'accetta ... che dal colore rossiccio e dalla superficie scabra, giudico di rame. I recenti ampî studî del ch. Colini sui periodi cupro ed eneolitici e la località donde il cimelio deriva, occupata un tempo dagli Umbri, parmi conferiscano al medesimo un qualche interesse per le comparazioni.” Il “cimelio” fu acquistato “pel museo civico di Forlì, ove si custodiscono diverse altre accette di rame e di bronzo, che in varî tempi sono state rinvenute nei circostanti contrafforti appenninici.” (SANTARELLI 1902) All'illustrazione delle collezioni del museo forlivese Santarelli aveva Contemporaneamente lo studioso s'impegnò in particolare nel controllo sistematico delle opere di urbanistica che interessarono la città di Forlì (SANTARELLI 1906; PRATI 1984, pp. 527-528). I numerosi reperti fittili raccolti diedero origine ad una cospicua raccolta di ceramiche, che sarebbe dovuta confluire anni dopo in un “Museo della ceramica forlivese” (PRATI 1980, p. 123).
Palazzo del Merenda
72 Corso della Repubblica
Museo Archeologico Antonio Santarelli- Forlì Si forma a Forlì nell'ultimo trentennio dell'Ottocento ad opera di Antonio Santarelli, che diede organicità e precisi indirizzi di sviluppo ad un'eterogenea raccolta antiquaria, effettuando importanti recuperi nel territorio e vaste campagne di scavo nei siti della Bertarina di Vecchiazzano, Villanova, S. Varano. Il museo è oggi collocato al piano terra del palazzo del Merenda; l’ultimo ordinamento (1960), con allestimento anche del lapidario si deve a Guido A. Mansuelli, Giancarlo Susini, Raffaele Turci. Ne è previsto il trasferimento nel complesso conventuale di S. Domenico.L'itinerario relativo all'antica demografia forlivese copre un ampio ventaglio cronologico che dal Paleolitico inferiore si spinge alla fine dell'evo antico. Illustrano uno fra i più remoti insediamenti umani della penisola italiana e dell'Europa intera i manufatti litici del giacimento di Monte Poggiolo, cui si attribuisce un'età di circa 800 mila anni dal presente. Rinvenimenti storici, in buona parte effettuati dal Santarelli, e recenti acquisizioni, descrivono lo sviluppo delle culture che si sono avvicendate nei dintorni di Forlì e nelle vallate circostanti dal Neolitico alla fase della celtizzazione della pianura padana. Per il Neolitico rappresentative sono le strutture insediative di Vecchiazzano e del sito di Via Decio Raggi. Manufatti litici, ritrovati un po' ovunque lungo le vallate del Montone, del Rabbi, del Ronco-Bidente, costituiscono un buon indice della frequentazione del territorio durante l'Eneolitico. I nuclei di maggiore rilievo sono riferibili agli stanziamenti dell'età del Bronzo di Bertarina di Vecchiazzano, Coriano e al ripostiglio di San Lorenzo in Noceto. Alcuni importanti reperti fanno capo al momento terminale della prima età del Ferro, come la stele di S. Varano e la tomba del guerriero di Carpena, che ha restituito una panoplia completa. Il sepolcreto di Rocca S. Casciano documenta invece la presenza dei Celti alla fine del IV sec. a.C., mostrando l'acquisizione da parte di queste genti del costume etrusco e la pronta integrazione con le comunità locali. La sequenza diacronica prosegue con le testimonianze relative alla Forum Livii romana sia di epoca repubblicana che di età imperiale, provenienti da diverse zone dell'odierno tessuto urbano e rappresentate specialmente da oggetti di uso quotidiano (ceramica comune e da mensa, pesi da telaio, lucerne, vetri, suppellettili in bronzo) e da alcuni mosaici in bianco e nero a motivi geometrici (I sec. d.C.). Il museo ospita infine alcuni straordinari pezzi di epoca teodoriciana (VI sec.): il mosaico policromo a motivi marini dell'aula absidata della grandiosa "villa" di Meldola e il cosiddetto ritratto in marmo di Alarico e una grande fibbia d'argento dorato decorata a punzone e a sbalzo. La raccolta lapidaria romana accoglie, insieme ad elementi architettonici, frammenti di mosaici, laterizi ed altri manufatti, iscrizioni recuperate nel centro urbano, in particolare la targa del monumento funebre di C. Castricio, e nei 'vici' e 'pagi' del territorio. Un'ultima sezione è dedicata alle iscrizioni del vicino municipio di Forum Popili (Forlimpopoli). LE RICERCHE DI ANTONIO SANTARELLI L'ultimo decennio del XIX secolo segna un progressivo rallentamento degli scavi e delle ricerche condotte da Antonio Santarelli. Intorno al 1890 l'archeologo forlivese fu incaricato dal Municipio di Sarsina di organizzare in un unico ambiente “tutti i marmi letterati non che diversi pezzi architettonici e d'ornato ed i più minuti cimelii” recuperati sino ad allora nel locale territorio (SANTARELLI 1890a, p. 1). Nell'opera di allestimento lo studioso forlivese si avvalse della collaborazione del regio ispettore del Circondario di Cesena, l'avvocato Nazzareno Trovanelli. Nella breve guida edita a supporto del visitatore trova ampio spazio la descrizione degli oltre “70 marmi scritti tra cippi, lapidi e frammenti di esse esistenti in luoghi diversi” mentre “del periodo preistorico e pre-romano sono state finora povere le scoperte: ma il fatto secondo me ha spiegazione nella mancanza di scavi sistematici: perocchè indizi di quell'età sono già alcune fibule ed una grossa armilla di bronzo: e non è supponibile che in un centro così importante dell'Umbria antica designata col nome speciale di Tribu Sapinia cercando bene non siano a rinvenirsi le capanne e le tombe degli italici primitivi.” (SANTARELLI 1890a, p. 6). L'inaugurazione del Museo generò grande entusiasmo presso i cittadini “incominciando da Monsignor Vescovo e dall'arcidiacono fino a modesti operai” desiderosi “di fare onore alla collezione patria”. Contemporaneamente Santarelli portò a termine l'edizione definitiva degli scavi nell'abitato della seconda età del Ferro di Villanova di Forlì (MASSI PASI 1996 con bibliografia precedente), mosso dalla volontà di illustrare dettagliatamente un insediamento da lui ritenuto ascrivibile alla prima età del Ferro dal momento che “è noto ai paletnologi, che mentre abbondano in Italia e fuori necropoli” di tale periodo “sono invece molto rari da noi gli abituri di quelle genti.” (SANTARELLI 1891, p. 300). Nel 1888, dopo aver dato una prima comunicazione delle indagini iniziate sin dal 1881 grazie “al sussidio ottenuto dalla Direzione Generale delle Antichità e dal Municipio forlivese”, riprese gli scavi individuando 14 fondi di capanne , su cui non si dilungò, limitandosi ad esporne le particolarità più rilevanti unitamente alla descrizione dei reperti ceramici, litici e osteologici che oggi si definirebbero diagnostici. Nel complesso dei frammenti fittili “non si offersero avanzi di quei vasi d'argilla impura, a pareti quasi dritte, a fondo molto grosso che s'incontrarono nella vicina terranuova di Vecchiazzano: solo due anse larghe piatte, richiamano quell'età.” (SANTARELLI 1891, p. 301). Immancabile alla conclusione della breve memoria il tentativo di definire da un punto di vista etnico le popolazioni che frequentarono il sito. L'autore attribuì agli Umbri “un grosso nucleo di cimelî” mescolati ai quali “erano avanzi di Etruschi e di Galli” (SANTARELLI 1891, p. 314). Per spiegare una presunta arcaicità o meglio arretratezza culturale di questa civiltà rispetto allo splendore di Bologna ed Este, concordava con l'Orsi che sosteneva che i “due grandi centri ove l'industria umbra salì al suo massimo sviluppo erano ... in condizioni eccezionali, pel contatto con la coltura del Mediterraneo ... Il nostro villaggio invece rappresenta la civiltà umbra in uno stato di decadenza, ove pur perdurando nella ceramica qualcuna delle antiche forme più semplici connesse ai bisogni della vita, sono già formati ed amalgamati elementi estranei”. A questo nucleo definito dal Santarelli “italico” si sovrapposero dapprima gli Etruschi, che però non sembra “vi fermassero stabile possesso nè che fossero sempre ostili ai primitivi coloni” ai quali “un maggior colpo recava ... l'arrivo dei Galli” (SANTARELLI 1891, pp. 316-317), come testimonierebbe la presenza nel vicino fondo Guarini di numerosi “vasi cenerognoli ... specialità della ceramica gallica ... Dalle esposte cose emerge dunque la conferma che nella stazione di Villanova abbiamo un miscuglio di genti varie ... accomunate e strette insieme dalla necessità del suolo, dal conforme modo di abitare, dai vincoli di amistà o dipendenza, ma più che altro dal grave pericolo che era per tutte il fatidico volo delle aquile romane.” (SANTARELLI 1891, pp. 322-323) Con gli stessi finanziamenti Santarelli concluse anche le campagne esplorative nell'insediamento dell'età del Bronzo della Bertarina di Vecchiazzano, senza riuscire a pubblicare un'organica monografia (SANTARELLI 1889; Id. 1890; Id. 1893). Negli anni seguenti l'attività di ricerca del Santarelli tende ad affievolirsi, limitandosi per lo più ad un controllo minuzioso dei rinvenimenti che si susseguivano nel circondario di Forlì in qualità di regio ispettore onorario (BALDINI, PAGLIANI 1980, p. 108), ed editi per lo più nella serie delle “Notizie degli Scavi”. (SANTARELLI 1898). Fra i principali si ricorda la scoperta “in un campo della parrocchia di Ranchio, non lungi da Sarsina” di un'accetta ... che dal colore rossiccio e dalla superficie scabra, giudico di rame. I recenti ampî studî del ch. Colini sui periodi cupro ed eneolitici e la località donde il cimelio deriva, occupata un tempo dagli Umbri, parmi conferiscano al medesimo un qualche interesse per le comparazioni.” Il “cimelio” fu acquistato “pel museo civico di Forlì, ove si custodiscono diverse altre accette di rame e di bronzo, che in varî tempi sono state rinvenute nei circostanti contrafforti appenninici.” (SANTARELLI 1902) All'illustrazione delle collezioni del museo forlivese Santarelli aveva Contemporaneamente lo studioso s'impegnò in particolare nel controllo sistematico delle opere di urbanistica che interessarono la città di Forlì (SANTARELLI 1906; PRATI 1984, pp. 527-528). I numerosi reperti fittili raccolti diedero origine ad una cospicua raccolta di ceramiche, che sarebbe dovuta confluire anni dopo in un “Museo della ceramica forlivese” (PRATI 1980, p. 123).
La storia delle fonti della Panighina è una storia di scoperte e riscoperte. Nell'Ottocento furono notate in questa zona delle aree in cui la neve si scioglieva prima che in altre, la vegetazione non cresceva, e scavando apparivano polle di acqua salata. Intorno al 1870, il proprietario del terreno, Pietro Blasetti, fece analizzare l’acqua e scavò i primi due pozzi, che chiamò Rosso e Verde. La tradizione d'altronde diceva che l’acqua era stata già ‘scoperta’ da una mucca malata che si era risanata bevendola. Nel 1902, durante gli scavi per alcuni lavori di captazione di nuove vene, vennero scoperti interessantissimi manufatti che attestavano l’utilizzo dell’acqua dalla fine del Neolitico all'Età del bronzo. Si trattava della struttura in legno di un pozzo e di numerose suppellettili, tra cui brocche, boccali, scodelle, tazze e vasi: testimonianze dei primi utilizzatori. Ora questi oggetti sono conservati al Museo Civico Archeologico di Bologna. Nei primi anni del Novecento le acque della Panighina vennero portate ad importanti esposizioni internazionali, a Roma, Torino, Londra e Parigi, riportando notevoli successi. Negli anni Venti, accanto al piccolo stabilimento termale già edificato accanto ai pozzi, fu costruito un edificio liberty per ospitare il ristorante che fino ad allora si trovava in un precario edificio in legno. Il ristorante venne poi via via ampliato e restaurato fino ad assumere l’aspetto attuale. Negli anni ’60 le fonti ebbero il loro momento di maggior affluenza di visitatori che è andata poi calando. Nelle falde sono presenti ben sette tipi di acque minerali, ma attualmente sono potenzialmente attive solo tre fonti, quelle che affluiscono nei chioschi del parco, ricco di grandi alberi e aiuole. Le fonti sono immerse in un parco di due ettari con aiuole, panchine e grandi alberi, in particolare pini domestici centenari, cipressi, tigli, cedri del libano e sequoie. Caratteristiche delle acque: salse (inclusi sottogruppi) solforose (inclusi sottogruppi) Personalità collegate: Luigi Maria Ugolini (archeologo) Giosuè Carducci (poeta) Notizie storiche, culturali e paesaggistiche del contesto: Arroccata sopra il colle che domina le fonti della Panighina, sorge Bertinoro, da cui lo sguardo spazia sulla pianura fino all’Adriatico. E’ questa una cittadina le cui origini risalgono almeno al secolo XI e che fu contesa fra forlivesi, cesenati e riminesi; ancora oggi conserva il caratteristico aspetto medioevale, con le strette vie, tratti delle mura perimetrali e due delle antiche porte. Simbolo della città di Bertinoro è la Colonna dell’Ospitalità che si erge sul fondo della piazza. Secondo la leggenda per evitare le liti fra le famiglie locali che si contendevano l’onore di ospitare i visitatori, fu innalzata, nel sec. XIII, la Colonna provvista di anelli per legarvi le cavalcature: un anello per ogni famiglia e a seconda di dove veniva legato il cavallo dal viaggiatore, lì cadeva la scelta dell’ospite. Ancora oggi questi luoghi offrono un’accoglienza calorosa fatta anche di cibi rustici ma gustosi e buon vino. Forlimpopoli, vicino centro collocato sulla via Emilia, fu municipio romano col nome di Forum Popilii; venne distrutto dai barbari nel 672 d.C. e solo verso l’anno 1000 ricominciò ad essere abitato. La sua ricostruzione si deve in gran parte agli Ordelaffi, signori di Forlì, così come l’aspetto attuale della Rocca che domina la piazza centrale. Forlimpopoli diede i natali a Pellegrino Artusi, famoso gastronomo; in sua memoria ogni anno hanno luogo le celebrazioni Artusiane, occasione per degustare la cucina locale. IL POZZO DELLA PANIGHINA DI BERTINORO: ANTONIO SANTARELLI E LUIGI MARIA UGOLINI A CONFRONTO Il 1902 è anche l'anno in cui Santarelli esamina per la prima volta i reperti provenienti dall'escavazione di un pozzo in località Panighina di Bertinoro. Già nel 1870 il proprietario del fondo sig. Pietro Bassetti iniziò i lavori per la costruzione di un pozzo per la captazione di acqua minerale dalle proprietà ritenute terapeutiche, risorsa di cui abbonda assai il territorio bertinorese. L'afflusso sempre crescente di persone indusse poi il figlio di Bassetti a intraprendere degli scavi per “avere maggiore copia di quell'acqua”, durante i quali si rinvenne “un grosso ceppo d'albero vuoto” contenente al suo interno “parecchi vasi fittili”. Il tronco era circondato da una “palafitta in contorno ... eseguita per reggere la spinta della ripe, e i paletti fossero stati messi a contrasto per tenere eretto il ceppo e concatenare tutto il congegno.” (SANTARELLI 1902a, p. 542) Informato tardivamente della scoperta Santarelli potè solo esaminare i reperti raccolti, i resti dell'albero, identificato come olmo, e i pali di quercia della “palafitta”. Riferendo dei materiali l'archeologo evidenzia l'“assenza completa di anse cornute e lunate, di quelle a cilindro retto e ad ascia” ed il numero esiguo di frammenti decorati. Scarsi i resti osteologici ed una sola “spatola da lisciare”. La singolarità del deposito archeologico creò non pochi dubbi al Santarelli. I “fondati indizî di una stazione d palafitticoli” andrebbero a contrastare con l'“alta antichità” della “tecnica di buona parte delle stoviglie”, tanto che la circostanza sembra richiamare il caso della torbiera di Casale Zaffanella nella pianura cremonese, sottostante ad una vera e propria “terramara” (SANTARELLI 1902a, p. 549). Inoltre ad indiziare l'esistenza di un insediamento “palafitticolo” vi era la notizia del recupero di altri pali di legno e frammenti ceramici in un pozzo aperto a 40 m di distanza per lo sfruttamento di acqua magnesiaca. La struttura lignea intercettata nel 1902 avrebbe avuto, secondo lo studioso, la funzione di separare l'acqua medicamentosa “dall'altra di filtrazione” isolandola “con un bacino chiuso, servendosi poi, per farla salire, di un grosso ceppo d'albero, cavo probabilmente per vecchiezza. ... E che quella gente antichissima raggiungesse l'intento prefissosi, risulta da altra circostanza rimasta stabilita dagli operai del recente affondamento. Apprendesi da essi come il grosso tronco cuopriva la maggior parte della fessura del sasso dalla quale emanava l'acqua salutare; e mentre il limo del bacino circondante il detto tronco era turchiniccio, la fanghiglia trovata nella cavità del medesimo, pei sedimenti lasciativi dalla salso iodica, era invece biancastra.” (SANTARELLI 1902a, p. 550). Il ritrovamento di vasi frammentari all'interno del tronco deve essere ricondotta secondo Santarelli “al culto che fin dalla più lontana età si è avuto per le acque salutari, ed è conosciuto il costume degli antichi di attestare gratitudine pei benefici da esse ottenute.” La maggior parte dei vasi costituiva “donari” poichè “coloro, che ricuperata la salute per virtù di quelle linfe, attestavano la loro riconoscenza col gettito delle stoviglie servite a sorbirla, non possedendo nè monete, nè figuline simboliche adoperate più tardi da altre genti per tali testimonianze. E che si tratti di stipe votiva ce lo dice anche il fatto, che i vasi più o mento interi ricuperati, sono potori od attingitoj; e gli infiniti cocci che fanno loro corona, mostrano di avere appartenuto a ciotole o a recipienti tutti di piccola misura.” (SANTARELLI 1902a, p. 551). Cronologicamente il sito doveva risalire a parere dell'archeologo forlivese “ai fondi di capanna neolitiche e precorresse l'età del bronzo” in base a confronti in gran parte inesatti su cui si avrà modo di tornare. La notizia della scoperta del pozzo della Panighina non mancò di avere risonanza nell'ambiente scientifico dell'epoca. Lo stesso Luigi Pigorini recensì qualche anno dopo la comunicazione del Santarelli sottolineando “che la scoperta del Santarelli è di notevole importanza per lo studio della civiltà dei palafitticoli, e torna a molto onore del collega poiché nessun'altra simile, per quanto io ne so, fu mai annunziata innanzi al 1902 e, non ostante la singolarità di essa, venne benissimo spiegata.” (PIGORINI 1908, p. 184). L'archeologo emiliano non evitò comunque di rimarcare quelli che a suo avviso costituivano i punti deboli dell'interpretazione del collega forlivese. Il primo motivo di dissenso, se si eccettua l'ennesimo, ampio riferimento polemico alla successione storico-etnica proposta dal Brizio (grotte-fondi di capanna-terramare), dalla quale si era parzialmente discostato lo stesso Santarelli, è rappresentato dai confronti istituiti dall'autore per il materiale ceramico del complesso. Pigorini rigettava la possibilità di considerare termini di paragone sia quei siti come Prevosta in cui è impossibile, secondo l'ottica di allora, riconoscere una omogeneità cronologica, sia i cosiddetti “fondi di capanne” neolitici del Reggiano di Campegine e Albinea indagati a suo tempo da Gaetano Chierici, citati dal Santarelli per una supposta somiglianza fra i “fiaschi neolitici”e i “boccaletti” della Panighina, somiglianza limitata alla sola morfologia del collo. Ancor meno attendibili i raffronti con le grotte eneolitiche della Sardegna evocati dal collega forlivese, sulla sola similitudine dei “fondi tondeggianti” (PIGORINI 1908, pp. 177-178). Maggiormente attinenti secondo Pigorini sono le osservazioni del Santarelli a proposito dei rapporti con la “ceramica delle palafitte”. Fra queste sono citate quella di Mercurago, nella quale fu rinvenuto un vaso “a doppio manico” con funzione di attingitoio come proverebbero i “residui di funi” trovati ancora avvolti alle anse, ma sopratutto quelle venete di Fimon e di Arquà Petrarca e quella della Lombardia (Lagazzi, Cataragna, Polada), sicchè concordando col collega romagnolo Pigorini affermava “che i palafitticoli occuparono la Panighina per valersi delle acque salutari, ed avanzava l'ipotesi che la mancanza di affinità con i “vasi dei terramaricoli”, che nella sua teoria erano insediati nell'intera regione emiliano-romagnola, si dovesse spiegare per le caratteristiche speciali di queste “stoviglie usate nelle fonti di acque salutari, non già nelle abitazioni, quindi hanno soltanto le forme che convenivano alla loro destinazione, e differiscono necessariamente in parte dalla ceramica adoperata negli atti ordinarî della vita. ... La presenza alla Panighina di vasi che non sono quelli delle vicine terremare, ma hanno invece i caratteri delle stoviglie fabbricate dai palafitticoli del Veneto, del Cremonese e del Bresciano, dimostra che pur questi accorrevano alle fonti salutari del Forlivese.” (PIGORINI 1908, pp. 183-184). La scoperta di un pozzo a Saint Moritz in Engadina in corrispondenza di una celebre sorgente ferruginosa, ritenuto opera delle “famiglie delle palafitte” che abitavano la regione alpina svizzera, andava a confermare l'ipotesi dell'utilizzo già nell'età del Bronzo di acque salutari. Gli scavi portarono in luce due tronchi di larice cavi a mo' di tubo. Il più largo di questi conteneva all'interno due spade di bronzo, “una delle quali con la punta nel terreno vergine dal quale scaturisce l'acqua”, a cui si accompagnava la presenza di altri tre reperti bronzei interpretabili nel complesso come attestazione di un culto delle acque, o più verosimilmente, visto l'esiguo numero, come “il testimonio di una cerimonia compiuta nell'atto che si iniziava l'inalzamento dei tubi.” (Pigorini 1908, pp. 185-188). Il complesso risalirebbe al secondo periodo dell'età del Bronzo svizzera, corrispondente all'inizio della prima età del Ferro italiana. Come ultima annotazione Pigorini riportava la presenza in entrambi i siti di un sistema composito denominato “gabbione” che circondava i tronchi. Tale tipo di costruzione ritrovato dallo stesso studioso negli scavi della terramare di Castione Marchesi nel Parmense, trovava confronti anche nei Balcani, e precisamente in Bosnia, precisamente a Bihać e a Donja Dolina. Queste constatazioni rendevano “sempre più insostenibile l'opinione di coloro i quali pensano, che tutto ciò che seppero fare in Europa le famiglie delle palafitte non fu che una semplice evoluzione di quanto, durante l'età neolitica, si svolse nel buio delle caverne e nelle povere capanne mezzo sepolte nel terreno.” (PIGORINI 1908, p. 191). Gli scavi alla Panighina tanto invocati dal Santarelli, ripresero nell'ottobre del 1909 con l'effettuazione di un saggio di scavo, per iniziativa del prof. Gherardo Ghirardini, ma la stagione particolarmente piovosa determinò una precoce interruzione dei lavori (UGOLINI 1923, cc. 553-554). I rinvenimenti si limitarono solamente a qualche frammento di laterizi di età romana e ad un unico reperto ceramico definito dagli scavatori “preistorico” (MORICO 1996, p. 37). Le ricerche furono rimandate al 1911, quando una trincea fu aperta ad appena due metri di distanza dal “pozzo rosso” (fig. 6). La relazione degli scavi non fu curata dal Ghirardini, scomparso nel frattempo, ma da un giovane e promettente studente al quale l'eminente studioso aveva affidato lo studio della copiosa messe di materiali nell'ambito della tesi di laurea, completata e discussa poi con Pericle Ducati: Luigi Maria Ugolini (SUSINI 1996, p. 107). Nativo di Bertinoro di Forlì, la sua giovinezza fu segnata indelebilmente dall'esperienza della prima guerra mondiale, combattuta da alpino nel battaglione Feltre, da cui tornò mutilato ed insignito di una medaglia al valore (MUSTILLI 1941, p. 34). Terminato il conflitto potè concludere gli studi universitari interrotti a causa degli eventi bellici. La sua formazione archeologica fu indiscutibilmente influenzata dalle frequentazioni universitarie coà Ghirardini, titolare dell'insegnamento di “Antichità umbro-etrusco-galliche” all'Università di Bologna e poi col Ducati che lo segnalò a Roberto Paribeni (SUSINI 1996, p. 108), direttore delle missioni scientifiche italiane in Levante. Erano gli anni in cui l'Italia volgeva lo sguardo sui vicini Balcani ed in particolare sull'Albania, ritenuto paese chiave nello scacchiere transadriatico (PETRICIOLI M. 1986, p. 27). Ugolini che nel frattempo frequentava a Roma la Scuola Nazionale di Archeologia, fu proposto dallo stesso Paribeni per effettuare una missione esplorativa nel territorio albanese meridionale, a pochi mesi dalla concessione di scavo ottenuta dalla Francia per intraprendere ricerche a Durazzo e ad Apollonia (DE MARIA 2002, p. 19). Proprio alla vigilia della partenza per il primo viaggio in Albania (per il quale si rimanda da ultimo a De Maria 2003- 04; per un profilo completo della missione italiana: Zevi 1986), diede alle stampe l'edizione integrale degli scavi della Panighina, contenente una completa revisione anche dei contributi del Santarelli. Dal punto di vista della cultura materiale Ugolini concordava col Pigorini, nell'escludere qualsiasi somiglianza tra i boccali rinvenuti nel 1902 e i fiaschi neolitici dei villaggi a fondi di capanna. Curiosa è l'interpretazione funzionale fornita sulle due diverse tipologie di vasi: “i fiaschi invece sono a corpo sferoidale, con il collo assai stretto, impostato come nei fiaschi del Reggiano, e forniti sulle spalle, di una doppia coppia di anse a canale, poste l'una sotto l'altra e coi fori in senso verticale: una funicella, assicurata ad esse, serve da manico. Vengono questi adibiti al trasporto dell'acqua, mentre i boccali sono usati nelle bettole e nelle cantine per bere e mescere il vino.” (UGOLINI 1923, c. 542 n. 1). Più logiche le analogie con gli insediamenti romagnoli “a fondi di capanna di tipo recente (gruppo bolognese- romagnolo-marchigiano)” nonostante l'assenza delle “anse cornute ed a cilindro”. L'ipotesi avanzata dal Pigorini di un'attribuzione crono-culturale alle palafitte dell'area transpadana non trova pienamente d'accordo l'Ugolini sulla scorta di un'analisi tipologica e stilistica del materiale ceramico. Da sottolineare, accanto a fuorvianti paragoni con gli ossuari della necropoli di San Vitale di Bologna, il confronto istituito con la ceramica della Grotta di Latronico in Basilicata per la decorazione di alcuni vasi con motivi a punteggio (UGOLINI 1923, c. 546). Nonostante le conclusioni lo inducessero ad affermare l'assegnazione del materiale “del «pozzo rosso» ai primi albori della prima età del ferro”, la persistenza di alcuni elementi arcaicizzanti deponeva a favore della presenza di “tracce della oltrepassata civiltà paesana, ed ha risentito degli influssi delle diverse civiltà svolgentisi all'intorno.” (UGOLINI 1923, c. 553). Tale convinzione è rafforzata dall'esame dei reperti ceramici provenienti dallo scavo stratigrafico del 1911 che anzi “attesta la quotidiana, semplice, ininterrotta permanenza di questa ente dall'età neolitica alla prima età del ferro, fino cioè al tempo in cui il pozzo era in piena attività.” (UGOLINI 1923, c. 575). Nel tentativo di individuare un “popolo” al quale attribuire la frequentazione del sito l'autore ammette “che è assai arduo poter provare questa discendenza degli abitatori della Panighina, viventi al principio dell'età del ferro, dai loro lontani progenitori d'età neolitica.” La mancanza di cospicue “introduzioni industriali” escluderebbe “nuove infiltrazioni etniche” pur ammettendo l'esistenza di “influssi di altre civiltà, di altri paesi ... di altri gruppi di stazioni più o meno lontane per età e località” (UGOLINI, 1923, c. 575). “Siamo nello spazio in cui – generalmente si crede - «avvenivano le emigrazioni dei terramaricoli dal nord al sud d'Italia», ed in cui pure elementi di civiltà del sud arrivano al nord. ... Quindi i terramaricoli, poco dopo lasciati i loro centri del Parmense e del Modenese, senza valicare l'Appennino, ma seguendone le falde, incontrarono la Romagna ove del loro passaggio lasciarono tracce in alcuni elementi industriali e culturali (la Bertarina di Forlì, posta a pochi chilometri dalla Panighina, può essere una attestazione di questo transito). Però, accanto alle influenze delle evolventesi civiltà limitrofe, abbiamo visto la permanenza di elementi arcaici i quali per me ... hanno avuto grande valore per la dimostrazione della continuità etnica della popolazione. Questa persistenza di elementi culturali arcaici in età posteriori ... e quello che comunemente si riscontra in Romagna, ove trovasi la Panighina.” (UGOLINI 1923, c. 576). Ampia, infine, la disamina interpretativa del “fons putealis” elaborate dall'archeologo bertinorese. L'ingegnosa costruzione lignea che circondava il tronco di albero cavo recuperato nel 1902 impropriamente denominata “palafitta” dal Santarelli e descritta simile ad un “gabbione” dal Pigorini, avrebbe avuto lo scopo da un lato di mantenere verticale il ceppo, e dall'altra di reggere la spinta delle pareti del pozzo, come testimoniavano numerose altre strutture analoghe rinvenuta in Europa. Il lavoro di escavazione del tronco fu eseguito artificialmente in 177 maniera accurata. L'altezza descritta dagli operai di circa 5 m contrastava con il diametro di appena 30 cm; verosimile, dunque, che la struttura fosse costituita in realtà da diversi frammenti lignei di circa 40-60 cm di altezza a guisa di tubatura composita. La congiunzione di queste elementi sarebbe avvenuta “per semplice aderenza degli orifizi. Sarebbe il metodo detto bout à bout, e riscontrato da questi nelle scoperte archeologiche di Fumades e Bourbonne-Les-Bains.” (UGOLINI 1923, c. 588). Il sistema idraulico ricorda i “tubuli fictiles” ricordati da Vitruvio, pur cambiando la materia prima utilizzata (UGOLINI 1923, c. 597). Sulla base della natura minerale dell'acqua, delle sue qualità terapeutiche, della complessità tecnica per la realizzazione del pozzo preistorico, della presenza di “donaria” al suo interno, Ugolini ipotizza un carattere sacro del sito. “Per me, ripeto qui, la fonte sacra della Panighina rappresenta un culto topico, di carattere naturistico, sorto perchè fu favorito da singolari e locali circostanze riguardanti la natura del liquido (acqua amara e medicamentosa) e all'atteggiamento dello spirito di queste genti (sentimenti di mistero avvolgente la potenza strana dell'acqua, e, sopratutto, di gratitudine per i beneficii ricevuti da questa). Sorse quindi come in generale sorgono i culti naturistici primitivi, cioè per le speciali condizioni dell'ambiente in cui nacquero, per il sentimento dell'animo dell'uomo che li produsse, e non quindi perchè una gente ne avesse, dirò così, la prerogativa e poi li propagasse ai vicini.” (UGOLINI 1923, c. 646). Recenti revisioni del complesso della Panighina hanno naturalmente meglio delineato gli aspetti crono-culturali (MORICO 1996; MORICO 1997). La frequentazione dell'area sembra iniziare in una fase recente del Neolitico, per la presenza di elementi riconducibili a tradizioni culturali di Ripoli e di Diana. Tali ceramiche non appaiono però essere in connessione sicura con l'utilizzo delle acque del pozzo, sfruttamento avviatosi probabilmente solo in un momento avanzato dell'Eneolitico, per essere poi abbandonato nel corso dell'antica età del Bronzo, essendo rare le testimonianze riferibili ad un periodo successivo. Gli errori di valutazione di Santarelli ed ancor più di Ugolini devono essere considerati all'interno di un giudizio più ampio che tenga conto dei limiti della disciplina preistorica dei primi decenni del XX secolo (Bermond Montanari 1996, p. 17), e del già ricordato aggiornamento relativamente carente della paletnologia romagnola nello stesso periodo. In particolare scarse e malferme erano ancora le conoscenze e la definizione culturale riguardanti l'Eneolitico dell'Italia centro-settentrionale. Sopratutto gravemente deficitaria si rivelava una dettagliata classificazione crono-culturale del cosiddetto neo-eneolitico emiliano, elaborata dal Malavolti nel secondo dopoguerra (Malavolti 1951-52). 14 Una valutazione complessiva su Ugolini non deve prescindere, inoltre, dalla notevole mole di lavoro svolta durante la sua breve attività, che lo ha impegnatoper lo più in missioni archeologiche all'estero (per l'operato di Ugolini a Malta, Pessina, Vella 2005),15 e dalle sue indubbie capacità di organizzazione, nonché dall'accuratezza e dalla precisione delle sue pubblicazioni. Sfortunatamente a lungo ha pesato la sua adesione al Partito Nazionale Fascista, tanto da essere stato definito “archeologo fascista” o, peggio, “fascista archeologo”, critica che ne ha forse causato una sorta di tardiva riabilitazione, se si pensa che un primo sintetico profilo biografico è apparso solamente nel 1964 (Laurenzi 1964), e che per certi versi continua ancor'oggi a pesare (BARBANERA 1998, pp. 128-129).16
Panighina
La storia delle fonti della Panighina è una storia di scoperte e riscoperte. Nell'Ottocento furono notate in questa zona delle aree in cui la neve si scioglieva prima che in altre, la vegetazione non cresceva, e scavando apparivano polle di acqua salata. Intorno al 1870, il proprietario del terreno, Pietro Blasetti, fece analizzare l’acqua e scavò i primi due pozzi, che chiamò Rosso e Verde. La tradizione d'altronde diceva che l’acqua era stata già ‘scoperta’ da una mucca malata che si era risanata bevendola. Nel 1902, durante gli scavi per alcuni lavori di captazione di nuove vene, vennero scoperti interessantissimi manufatti che attestavano l’utilizzo dell’acqua dalla fine del Neolitico all'Età del bronzo. Si trattava della struttura in legno di un pozzo e di numerose suppellettili, tra cui brocche, boccali, scodelle, tazze e vasi: testimonianze dei primi utilizzatori. Ora questi oggetti sono conservati al Museo Civico Archeologico di Bologna. Nei primi anni del Novecento le acque della Panighina vennero portate ad importanti esposizioni internazionali, a Roma, Torino, Londra e Parigi, riportando notevoli successi. Negli anni Venti, accanto al piccolo stabilimento termale già edificato accanto ai pozzi, fu costruito un edificio liberty per ospitare il ristorante che fino ad allora si trovava in un precario edificio in legno. Il ristorante venne poi via via ampliato e restaurato fino ad assumere l’aspetto attuale. Negli anni ’60 le fonti ebbero il loro momento di maggior affluenza di visitatori che è andata poi calando. Nelle falde sono presenti ben sette tipi di acque minerali, ma attualmente sono potenzialmente attive solo tre fonti, quelle che affluiscono nei chioschi del parco, ricco di grandi alberi e aiuole. Le fonti sono immerse in un parco di due ettari con aiuole, panchine e grandi alberi, in particolare pini domestici centenari, cipressi, tigli, cedri del libano e sequoie. Caratteristiche delle acque: salse (inclusi sottogruppi) solforose (inclusi sottogruppi) Personalità collegate: Luigi Maria Ugolini (archeologo) Giosuè Carducci (poeta) Notizie storiche, culturali e paesaggistiche del contesto: Arroccata sopra il colle che domina le fonti della Panighina, sorge Bertinoro, da cui lo sguardo spazia sulla pianura fino all’Adriatico. E’ questa una cittadina le cui origini risalgono almeno al secolo XI e che fu contesa fra forlivesi, cesenati e riminesi; ancora oggi conserva il caratteristico aspetto medioevale, con le strette vie, tratti delle mura perimetrali e due delle antiche porte. Simbolo della città di Bertinoro è la Colonna dell’Ospitalità che si erge sul fondo della piazza. Secondo la leggenda per evitare le liti fra le famiglie locali che si contendevano l’onore di ospitare i visitatori, fu innalzata, nel sec. XIII, la Colonna provvista di anelli per legarvi le cavalcature: un anello per ogni famiglia e a seconda di dove veniva legato il cavallo dal viaggiatore, lì cadeva la scelta dell’ospite. Ancora oggi questi luoghi offrono un’accoglienza calorosa fatta anche di cibi rustici ma gustosi e buon vino. Forlimpopoli, vicino centro collocato sulla via Emilia, fu municipio romano col nome di Forum Popilii; venne distrutto dai barbari nel 672 d.C. e solo verso l’anno 1000 ricominciò ad essere abitato. La sua ricostruzione si deve in gran parte agli Ordelaffi, signori di Forlì, così come l’aspetto attuale della Rocca che domina la piazza centrale. Forlimpopoli diede i natali a Pellegrino Artusi, famoso gastronomo; in sua memoria ogni anno hanno luogo le celebrazioni Artusiane, occasione per degustare la cucina locale. IL POZZO DELLA PANIGHINA DI BERTINORO: ANTONIO SANTARELLI E LUIGI MARIA UGOLINI A CONFRONTO Il 1902 è anche l'anno in cui Santarelli esamina per la prima volta i reperti provenienti dall'escavazione di un pozzo in località Panighina di Bertinoro. Già nel 1870 il proprietario del fondo sig. Pietro Bassetti iniziò i lavori per la costruzione di un pozzo per la captazione di acqua minerale dalle proprietà ritenute terapeutiche, risorsa di cui abbonda assai il territorio bertinorese. L'afflusso sempre crescente di persone indusse poi il figlio di Bassetti a intraprendere degli scavi per “avere maggiore copia di quell'acqua”, durante i quali si rinvenne “un grosso ceppo d'albero vuoto” contenente al suo interno “parecchi vasi fittili”. Il tronco era circondato da una “palafitta in contorno ... eseguita per reggere la spinta della ripe, e i paletti fossero stati messi a contrasto per tenere eretto il ceppo e concatenare tutto il congegno.” (SANTARELLI 1902a, p. 542) Informato tardivamente della scoperta Santarelli potè solo esaminare i reperti raccolti, i resti dell'albero, identificato come olmo, e i pali di quercia della “palafitta”. Riferendo dei materiali l'archeologo evidenzia l'“assenza completa di anse cornute e lunate, di quelle a cilindro retto e ad ascia” ed il numero esiguo di frammenti decorati. Scarsi i resti osteologici ed una sola “spatola da lisciare”. La singolarità del deposito archeologico creò non pochi dubbi al Santarelli. I “fondati indizî di una stazione d palafitticoli” andrebbero a contrastare con l'“alta antichità” della “tecnica di buona parte delle stoviglie”, tanto che la circostanza sembra richiamare il caso della torbiera di Casale Zaffanella nella pianura cremonese, sottostante ad una vera e propria “terramara” (SANTARELLI 1902a, p. 549). Inoltre ad indiziare l'esistenza di un insediamento “palafitticolo” vi era la notizia del recupero di altri pali di legno e frammenti ceramici in un pozzo aperto a 40 m di distanza per lo sfruttamento di acqua magnesiaca. La struttura lignea intercettata nel 1902 avrebbe avuto, secondo lo studioso, la funzione di separare l'acqua medicamentosa “dall'altra di filtrazione” isolandola “con un bacino chiuso, servendosi poi, per farla salire, di un grosso ceppo d'albero, cavo probabilmente per vecchiezza. ... E che quella gente antichissima raggiungesse l'intento prefissosi, risulta da altra circostanza rimasta stabilita dagli operai del recente affondamento. Apprendesi da essi come il grosso tronco cuopriva la maggior parte della fessura del sasso dalla quale emanava l'acqua salutare; e mentre il limo del bacino circondante il detto tronco era turchiniccio, la fanghiglia trovata nella cavità del medesimo, pei sedimenti lasciativi dalla salso iodica, era invece biancastra.” (SANTARELLI 1902a, p. 550). Il ritrovamento di vasi frammentari all'interno del tronco deve essere ricondotta secondo Santarelli “al culto che fin dalla più lontana età si è avuto per le acque salutari, ed è conosciuto il costume degli antichi di attestare gratitudine pei benefici da esse ottenute.” La maggior parte dei vasi costituiva “donari” poichè “coloro, che ricuperata la salute per virtù di quelle linfe, attestavano la loro riconoscenza col gettito delle stoviglie servite a sorbirla, non possedendo nè monete, nè figuline simboliche adoperate più tardi da altre genti per tali testimonianze. E che si tratti di stipe votiva ce lo dice anche il fatto, che i vasi più o mento interi ricuperati, sono potori od attingitoj; e gli infiniti cocci che fanno loro corona, mostrano di avere appartenuto a ciotole o a recipienti tutti di piccola misura.” (SANTARELLI 1902a, p. 551). Cronologicamente il sito doveva risalire a parere dell'archeologo forlivese “ai fondi di capanna neolitiche e precorresse l'età del bronzo” in base a confronti in gran parte inesatti su cui si avrà modo di tornare. La notizia della scoperta del pozzo della Panighina non mancò di avere risonanza nell'ambiente scientifico dell'epoca. Lo stesso Luigi Pigorini recensì qualche anno dopo la comunicazione del Santarelli sottolineando “che la scoperta del Santarelli è di notevole importanza per lo studio della civiltà dei palafitticoli, e torna a molto onore del collega poiché nessun'altra simile, per quanto io ne so, fu mai annunziata innanzi al 1902 e, non ostante la singolarità di essa, venne benissimo spiegata.” (PIGORINI 1908, p. 184). L'archeologo emiliano non evitò comunque di rimarcare quelli che a suo avviso costituivano i punti deboli dell'interpretazione del collega forlivese. Il primo motivo di dissenso, se si eccettua l'ennesimo, ampio riferimento polemico alla successione storico-etnica proposta dal Brizio (grotte-fondi di capanna-terramare), dalla quale si era parzialmente discostato lo stesso Santarelli, è rappresentato dai confronti istituiti dall'autore per il materiale ceramico del complesso. Pigorini rigettava la possibilità di considerare termini di paragone sia quei siti come Prevosta in cui è impossibile, secondo l'ottica di allora, riconoscere una omogeneità cronologica, sia i cosiddetti “fondi di capanne” neolitici del Reggiano di Campegine e Albinea indagati a suo tempo da Gaetano Chierici, citati dal Santarelli per una supposta somiglianza fra i “fiaschi neolitici”e i “boccaletti” della Panighina, somiglianza limitata alla sola morfologia del collo. Ancor meno attendibili i raffronti con le grotte eneolitiche della Sardegna evocati dal collega forlivese, sulla sola similitudine dei “fondi tondeggianti” (PIGORINI 1908, pp. 177-178). Maggiormente attinenti secondo Pigorini sono le osservazioni del Santarelli a proposito dei rapporti con la “ceramica delle palafitte”. Fra queste sono citate quella di Mercurago, nella quale fu rinvenuto un vaso “a doppio manico” con funzione di attingitoio come proverebbero i “residui di funi” trovati ancora avvolti alle anse, ma sopratutto quelle venete di Fimon e di Arquà Petrarca e quella della Lombardia (Lagazzi, Cataragna, Polada), sicchè concordando col collega romagnolo Pigorini affermava “che i palafitticoli occuparono la Panighina per valersi delle acque salutari, ed avanzava l'ipotesi che la mancanza di affinità con i “vasi dei terramaricoli”, che nella sua teoria erano insediati nell'intera regione emiliano-romagnola, si dovesse spiegare per le caratteristiche speciali di queste “stoviglie usate nelle fonti di acque salutari, non già nelle abitazioni, quindi hanno soltanto le forme che convenivano alla loro destinazione, e differiscono necessariamente in parte dalla ceramica adoperata negli atti ordinarî della vita. ... La presenza alla Panighina di vasi che non sono quelli delle vicine terremare, ma hanno invece i caratteri delle stoviglie fabbricate dai palafitticoli del Veneto, del Cremonese e del Bresciano, dimostra che pur questi accorrevano alle fonti salutari del Forlivese.” (PIGORINI 1908, pp. 183-184). La scoperta di un pozzo a Saint Moritz in Engadina in corrispondenza di una celebre sorgente ferruginosa, ritenuto opera delle “famiglie delle palafitte” che abitavano la regione alpina svizzera, andava a confermare l'ipotesi dell'utilizzo già nell'età del Bronzo di acque salutari. Gli scavi portarono in luce due tronchi di larice cavi a mo' di tubo. Il più largo di questi conteneva all'interno due spade di bronzo, “una delle quali con la punta nel terreno vergine dal quale scaturisce l'acqua”, a cui si accompagnava la presenza di altri tre reperti bronzei interpretabili nel complesso come attestazione di un culto delle acque, o più verosimilmente, visto l'esiguo numero, come “il testimonio di una cerimonia compiuta nell'atto che si iniziava l'inalzamento dei tubi.” (Pigorini 1908, pp. 185-188). Il complesso risalirebbe al secondo periodo dell'età del Bronzo svizzera, corrispondente all'inizio della prima età del Ferro italiana. Come ultima annotazione Pigorini riportava la presenza in entrambi i siti di un sistema composito denominato “gabbione” che circondava i tronchi. Tale tipo di costruzione ritrovato dallo stesso studioso negli scavi della terramare di Castione Marchesi nel Parmense, trovava confronti anche nei Balcani, e precisamente in Bosnia, precisamente a Bihać e a Donja Dolina. Queste constatazioni rendevano “sempre più insostenibile l'opinione di coloro i quali pensano, che tutto ciò che seppero fare in Europa le famiglie delle palafitte non fu che una semplice evoluzione di quanto, durante l'età neolitica, si svolse nel buio delle caverne e nelle povere capanne mezzo sepolte nel terreno.” (PIGORINI 1908, p. 191). Gli scavi alla Panighina tanto invocati dal Santarelli, ripresero nell'ottobre del 1909 con l'effettuazione di un saggio di scavo, per iniziativa del prof. Gherardo Ghirardini, ma la stagione particolarmente piovosa determinò una precoce interruzione dei lavori (UGOLINI 1923, cc. 553-554). I rinvenimenti si limitarono solamente a qualche frammento di laterizi di età romana e ad un unico reperto ceramico definito dagli scavatori “preistorico” (MORICO 1996, p. 37). Le ricerche furono rimandate al 1911, quando una trincea fu aperta ad appena due metri di distanza dal “pozzo rosso” (fig. 6). La relazione degli scavi non fu curata dal Ghirardini, scomparso nel frattempo, ma da un giovane e promettente studente al quale l'eminente studioso aveva affidato lo studio della copiosa messe di materiali nell'ambito della tesi di laurea, completata e discussa poi con Pericle Ducati: Luigi Maria Ugolini (SUSINI 1996, p. 107). Nativo di Bertinoro di Forlì, la sua giovinezza fu segnata indelebilmente dall'esperienza della prima guerra mondiale, combattuta da alpino nel battaglione Feltre, da cui tornò mutilato ed insignito di una medaglia al valore (MUSTILLI 1941, p. 34). Terminato il conflitto potè concludere gli studi universitari interrotti a causa degli eventi bellici. La sua formazione archeologica fu indiscutibilmente influenzata dalle frequentazioni universitarie coà Ghirardini, titolare dell'insegnamento di “Antichità umbro-etrusco-galliche” all'Università di Bologna e poi col Ducati che lo segnalò a Roberto Paribeni (SUSINI 1996, p. 108), direttore delle missioni scientifiche italiane in Levante. Erano gli anni in cui l'Italia volgeva lo sguardo sui vicini Balcani ed in particolare sull'Albania, ritenuto paese chiave nello scacchiere transadriatico (PETRICIOLI M. 1986, p. 27). Ugolini che nel frattempo frequentava a Roma la Scuola Nazionale di Archeologia, fu proposto dallo stesso Paribeni per effettuare una missione esplorativa nel territorio albanese meridionale, a pochi mesi dalla concessione di scavo ottenuta dalla Francia per intraprendere ricerche a Durazzo e ad Apollonia (DE MARIA 2002, p. 19). Proprio alla vigilia della partenza per il primo viaggio in Albania (per il quale si rimanda da ultimo a De Maria 2003- 04; per un profilo completo della missione italiana: Zevi 1986), diede alle stampe l'edizione integrale degli scavi della Panighina, contenente una completa revisione anche dei contributi del Santarelli. Dal punto di vista della cultura materiale Ugolini concordava col Pigorini, nell'escludere qualsiasi somiglianza tra i boccali rinvenuti nel 1902 e i fiaschi neolitici dei villaggi a fondi di capanna. Curiosa è l'interpretazione funzionale fornita sulle due diverse tipologie di vasi: “i fiaschi invece sono a corpo sferoidale, con il collo assai stretto, impostato come nei fiaschi del Reggiano, e forniti sulle spalle, di una doppia coppia di anse a canale, poste l'una sotto l'altra e coi fori in senso verticale: una funicella, assicurata ad esse, serve da manico. Vengono questi adibiti al trasporto dell'acqua, mentre i boccali sono usati nelle bettole e nelle cantine per bere e mescere il vino.” (UGOLINI 1923, c. 542 n. 1). Più logiche le analogie con gli insediamenti romagnoli “a fondi di capanna di tipo recente (gruppo bolognese- romagnolo-marchigiano)” nonostante l'assenza delle “anse cornute ed a cilindro”. L'ipotesi avanzata dal Pigorini di un'attribuzione crono-culturale alle palafitte dell'area transpadana non trova pienamente d'accordo l'Ugolini sulla scorta di un'analisi tipologica e stilistica del materiale ceramico. Da sottolineare, accanto a fuorvianti paragoni con gli ossuari della necropoli di San Vitale di Bologna, il confronto istituito con la ceramica della Grotta di Latronico in Basilicata per la decorazione di alcuni vasi con motivi a punteggio (UGOLINI 1923, c. 546). Nonostante le conclusioni lo inducessero ad affermare l'assegnazione del materiale “del «pozzo rosso» ai primi albori della prima età del ferro”, la persistenza di alcuni elementi arcaicizzanti deponeva a favore della presenza di “tracce della oltrepassata civiltà paesana, ed ha risentito degli influssi delle diverse civiltà svolgentisi all'intorno.” (UGOLINI 1923, c. 553). Tale convinzione è rafforzata dall'esame dei reperti ceramici provenienti dallo scavo stratigrafico del 1911 che anzi “attesta la quotidiana, semplice, ininterrotta permanenza di questa ente dall'età neolitica alla prima età del ferro, fino cioè al tempo in cui il pozzo era in piena attività.” (UGOLINI 1923, c. 575). Nel tentativo di individuare un “popolo” al quale attribuire la frequentazione del sito l'autore ammette “che è assai arduo poter provare questa discendenza degli abitatori della Panighina, viventi al principio dell'età del ferro, dai loro lontani progenitori d'età neolitica.” La mancanza di cospicue “introduzioni industriali” escluderebbe “nuove infiltrazioni etniche” pur ammettendo l'esistenza di “influssi di altre civiltà, di altri paesi ... di altri gruppi di stazioni più o meno lontane per età e località” (UGOLINI, 1923, c. 575). “Siamo nello spazio in cui – generalmente si crede - «avvenivano le emigrazioni dei terramaricoli dal nord al sud d'Italia», ed in cui pure elementi di civiltà del sud arrivano al nord. ... Quindi i terramaricoli, poco dopo lasciati i loro centri del Parmense e del Modenese, senza valicare l'Appennino, ma seguendone le falde, incontrarono la Romagna ove del loro passaggio lasciarono tracce in alcuni elementi industriali e culturali (la Bertarina di Forlì, posta a pochi chilometri dalla Panighina, può essere una attestazione di questo transito). Però, accanto alle influenze delle evolventesi civiltà limitrofe, abbiamo visto la permanenza di elementi arcaici i quali per me ... hanno avuto grande valore per la dimostrazione della continuità etnica della popolazione. Questa persistenza di elementi culturali arcaici in età posteriori ... e quello che comunemente si riscontra in Romagna, ove trovasi la Panighina.” (UGOLINI 1923, c. 576). Ampia, infine, la disamina interpretativa del “fons putealis” elaborate dall'archeologo bertinorese. L'ingegnosa costruzione lignea che circondava il tronco di albero cavo recuperato nel 1902 impropriamente denominata “palafitta” dal Santarelli e descritta simile ad un “gabbione” dal Pigorini, avrebbe avuto lo scopo da un lato di mantenere verticale il ceppo, e dall'altra di reggere la spinta delle pareti del pozzo, come testimoniavano numerose altre strutture analoghe rinvenuta in Europa. Il lavoro di escavazione del tronco fu eseguito artificialmente in 177 maniera accurata. L'altezza descritta dagli operai di circa 5 m contrastava con il diametro di appena 30 cm; verosimile, dunque, che la struttura fosse costituita in realtà da diversi frammenti lignei di circa 40-60 cm di altezza a guisa di tubatura composita. La congiunzione di queste elementi sarebbe avvenuta “per semplice aderenza degli orifizi. Sarebbe il metodo detto bout à bout, e riscontrato da questi nelle scoperte archeologiche di Fumades e Bourbonne-Les-Bains.” (UGOLINI 1923, c. 588). Il sistema idraulico ricorda i “tubuli fictiles” ricordati da Vitruvio, pur cambiando la materia prima utilizzata (UGOLINI 1923, c. 597). Sulla base della natura minerale dell'acqua, delle sue qualità terapeutiche, della complessità tecnica per la realizzazione del pozzo preistorico, della presenza di “donaria” al suo interno, Ugolini ipotizza un carattere sacro del sito. “Per me, ripeto qui, la fonte sacra della Panighina rappresenta un culto topico, di carattere naturistico, sorto perchè fu favorito da singolari e locali circostanze riguardanti la natura del liquido (acqua amara e medicamentosa) e all'atteggiamento dello spirito di queste genti (sentimenti di mistero avvolgente la potenza strana dell'acqua, e, sopratutto, di gratitudine per i beneficii ricevuti da questa). Sorse quindi come in generale sorgono i culti naturistici primitivi, cioè per le speciali condizioni dell'ambiente in cui nacquero, per il sentimento dell'animo dell'uomo che li produsse, e non quindi perchè una gente ne avesse, dirò così, la prerogativa e poi li propagasse ai vicini.” (UGOLINI 1923, c. 646). Recenti revisioni del complesso della Panighina hanno naturalmente meglio delineato gli aspetti crono-culturali (MORICO 1996; MORICO 1997). La frequentazione dell'area sembra iniziare in una fase recente del Neolitico, per la presenza di elementi riconducibili a tradizioni culturali di Ripoli e di Diana. Tali ceramiche non appaiono però essere in connessione sicura con l'utilizzo delle acque del pozzo, sfruttamento avviatosi probabilmente solo in un momento avanzato dell'Eneolitico, per essere poi abbandonato nel corso dell'antica età del Bronzo, essendo rare le testimonianze riferibili ad un periodo successivo. Gli errori di valutazione di Santarelli ed ancor più di Ugolini devono essere considerati all'interno di un giudizio più ampio che tenga conto dei limiti della disciplina preistorica dei primi decenni del XX secolo (Bermond Montanari 1996, p. 17), e del già ricordato aggiornamento relativamente carente della paletnologia romagnola nello stesso periodo. In particolare scarse e malferme erano ancora le conoscenze e la definizione culturale riguardanti l'Eneolitico dell'Italia centro-settentrionale. Sopratutto gravemente deficitaria si rivelava una dettagliata classificazione crono-culturale del cosiddetto neo-eneolitico emiliano, elaborata dal Malavolti nel secondo dopoguerra (Malavolti 1951-52). 14 Una valutazione complessiva su Ugolini non deve prescindere, inoltre, dalla notevole mole di lavoro svolta durante la sua breve attività, che lo ha impegnatoper lo più in missioni archeologiche all'estero (per l'operato di Ugolini a Malta, Pessina, Vella 2005),15 e dalle sue indubbie capacità di organizzazione, nonché dall'accuratezza e dalla precisione delle sue pubblicazioni. Sfortunatamente a lungo ha pesato la sua adesione al Partito Nazionale Fascista, tanto da essere stato definito “archeologo fascista” o, peggio, “fascista archeologo”, critica che ne ha forse causato una sorta di tardiva riabilitazione, se si pensa che un primo sintetico profilo biografico è apparso solamente nel 1964 (Laurenzi 1964), e che per certi versi continua ancor'oggi a pesare (BARBANERA 1998, pp. 128-129).16
LE ESPLORAZIONI DELLA VENA DEL GESSO Gli anni a cavallo del primo conflitto mondiale vedono anche la ripresa delle esplorazioni speleologiche nella cosiddetta Vena del Gesso, che aveva conosciuto una precoce stagione di ricerche ai tempi dello Scarabelli (BERTANI 1996; Id. 1997).20 In ordine cronologico fu il naturalista, geologo e geografo friulano Giovanni Battista De Gasperi ad intraprendere studi sui fenomeni carsici dell'Appennino emiliano-romagnolo. Nel 1911 compì una prima escursione nei pressi delle formazioni gessose di Monte Mauro. Nel corso dell'esplorazione visitò e rilevò una grotticella presso Ca' Pedriolo, notando la possibilità di condurre ricerche archeologiche (DE GASPERI 1912). La cavità fu poi denominata Grotta dei Banditi e nel 1973 da un saggio di scavo ad opera del Gruppo Speleologico Faentino e dalla Sezione di Faenza dell'Archeoclub. Nello stessa occasione De Gasperi procedette ad una ricognizione di un ampio tratto della Grotta del Re Tiberio. La brillante attività del giovane studioso di scienze naturali fu precocemente interrotta dalla morte sopravvenuta nel 1916 all'età di 24 anni in battaglia nell'alta Valdastico (BENTINI 1995). Da un punto di vista prettamente archeologico maggiore importanza rivestì la scoperta della Grotta della Tanaccia di Brisighella. Fu un altro speleologo friulano, per la precisione giuliano, il triestino Giovanni Mornig. Dopo gli esordi trascorsi ad indagare le cavità del Carso, Mornig, soprannominato “il corsaro” per l'abitudine di portare un fazzoletto nero durante le escursioni, al principio degli anni '30 si trasferì a Bologna dove conosce Luigi Fantini, il pioniere della moderna speleologia emiliana e fondatore del Gruppo Speleologico Bolognese, di cui divenne amico e collaboratore. Poco tempo si trasferì nuovamente a Brisighella compiendo tra il 1934 e il 1935 l'esplorazione di una cinquantina di cavità, descritte esaurientemente qualche anno più tardi in un'organica opera di sintesi pubblicata postuma (MORNIG 1995). In occasione di una di queste escursioni, nel 1934, ispezionò la Grotta della Tanaccia, ed eseguì nel 1935 un piccolo scavo in collaborazione col dott. Acquaviva e il dott. Corbara (MORNIG 1935), recuperando una serie di frammenti ceramici depositati presso la Saletta Speleologica allestita al Liceo “E. Torricelli” di Faenza, primo nucleo di un Museo Speleologico mai realizzato (BENTINI 1995a, p. 143). Nell'articolo comparso su “Il Corriere Padano” Mornig auspicava tempestive ricerche nella cavità: “Nella Romagna, terra del Duce, del grande patrimonio storico-culturale troppo è andato distrutto e disperso, e questo per l'incuria di alcuni che dovrebbero dare l'esempio e salvare simili reliquie.” Le parole del Mornig sembrano presagire il futuro tormentato che ebbe il complesso. Solamente nel fra il 1955 e il 1956, infatti, Renato Scarani su incarico della Soprintendenza condusse alcuni saggi di scavo nella parte interna della cavità, mettendo in luce livelli di frequentazione dell'Eneolitico e dell'età del Bronzo (SCARANI 1962) (fig. 12). Purtroppo l'edizione complessiva dei reperti dell'importante complesso non ha potuto usufruire delle associazione stratigrafiche dei materiali (FAROLFI 1976), in parte recuperate solamente in anni recenti a seguito di indagini d'archivio (MASSI PASI, MORICO 1997). A sottolineare la rilevanza del complesso della Tanaccia concorre, inoltre il riconoscimento nell'ambito del Campaniforme di un peculiare stile decorativo definito appunto “stile della Tanaccia” (BARFIELD 1977) 20 Negli stessi anni anche nell'Italia peninsulare si assiste ad un'eccezionale attività di ricerche da parte del Comitato Italiano per le Ricerche di Paleontologia Umana (GUIDI 2008, pp. 64-65).
23 người dân địa phương đề xuất
Công viên Vena del Gesso Romagnola
23 người dân địa phương đề xuất
LE ESPLORAZIONI DELLA VENA DEL GESSO Gli anni a cavallo del primo conflitto mondiale vedono anche la ripresa delle esplorazioni speleologiche nella cosiddetta Vena del Gesso, che aveva conosciuto una precoce stagione di ricerche ai tempi dello Scarabelli (BERTANI 1996; Id. 1997).20 In ordine cronologico fu il naturalista, geologo e geografo friulano Giovanni Battista De Gasperi ad intraprendere studi sui fenomeni carsici dell'Appennino emiliano-romagnolo. Nel 1911 compì una prima escursione nei pressi delle formazioni gessose di Monte Mauro. Nel corso dell'esplorazione visitò e rilevò una grotticella presso Ca' Pedriolo, notando la possibilità di condurre ricerche archeologiche (DE GASPERI 1912). La cavità fu poi denominata Grotta dei Banditi e nel 1973 da un saggio di scavo ad opera del Gruppo Speleologico Faentino e dalla Sezione di Faenza dell'Archeoclub. Nello stessa occasione De Gasperi procedette ad una ricognizione di un ampio tratto della Grotta del Re Tiberio. La brillante attività del giovane studioso di scienze naturali fu precocemente interrotta dalla morte sopravvenuta nel 1916 all'età di 24 anni in battaglia nell'alta Valdastico (BENTINI 1995). Da un punto di vista prettamente archeologico maggiore importanza rivestì la scoperta della Grotta della Tanaccia di Brisighella. Fu un altro speleologo friulano, per la precisione giuliano, il triestino Giovanni Mornig. Dopo gli esordi trascorsi ad indagare le cavità del Carso, Mornig, soprannominato “il corsaro” per l'abitudine di portare un fazzoletto nero durante le escursioni, al principio degli anni '30 si trasferì a Bologna dove conosce Luigi Fantini, il pioniere della moderna speleologia emiliana e fondatore del Gruppo Speleologico Bolognese, di cui divenne amico e collaboratore. Poco tempo si trasferì nuovamente a Brisighella compiendo tra il 1934 e il 1935 l'esplorazione di una cinquantina di cavità, descritte esaurientemente qualche anno più tardi in un'organica opera di sintesi pubblicata postuma (MORNIG 1995). In occasione di una di queste escursioni, nel 1934, ispezionò la Grotta della Tanaccia, ed eseguì nel 1935 un piccolo scavo in collaborazione col dott. Acquaviva e il dott. Corbara (MORNIG 1935), recuperando una serie di frammenti ceramici depositati presso la Saletta Speleologica allestita al Liceo “E. Torricelli” di Faenza, primo nucleo di un Museo Speleologico mai realizzato (BENTINI 1995a, p. 143). Nell'articolo comparso su “Il Corriere Padano” Mornig auspicava tempestive ricerche nella cavità: “Nella Romagna, terra del Duce, del grande patrimonio storico-culturale troppo è andato distrutto e disperso, e questo per l'incuria di alcuni che dovrebbero dare l'esempio e salvare simili reliquie.” Le parole del Mornig sembrano presagire il futuro tormentato che ebbe il complesso. Solamente nel fra il 1955 e il 1956, infatti, Renato Scarani su incarico della Soprintendenza condusse alcuni saggi di scavo nella parte interna della cavità, mettendo in luce livelli di frequentazione dell'Eneolitico e dell'età del Bronzo (SCARANI 1962) (fig. 12). Purtroppo l'edizione complessiva dei reperti dell'importante complesso non ha potuto usufruire delle associazione stratigrafiche dei materiali (FAROLFI 1976), in parte recuperate solamente in anni recenti a seguito di indagini d'archivio (MASSI PASI, MORICO 1997). A sottolineare la rilevanza del complesso della Tanaccia concorre, inoltre il riconoscimento nell'ambito del Campaniforme di un peculiare stile decorativo definito appunto “stile della Tanaccia” (BARFIELD 1977) 20 Negli stessi anni anche nell'Italia peninsulare si assiste ad un'eccezionale attività di ricerche da parte del Comitato Italiano per le Ricerche di Paleontologia Umana (GUIDI 2008, pp. 64-65).
“SCOPERTA DI UN «RIPOSTIGLIO» UMBRO NEL COMUNE DI POGGIO BERNI (FORLÌ)” A chiudere idealmente questa lunga stagione di ricerche, si pone il rinvenimento fortuito di un “«ripostiglio» umbro” nel territorio di Poggio Berni nel Riminese, pubblicato da quell'Alessandro Tosi che quasi mezzo secolo prima si era distinto nello svolgimento di gli scavi regolari nelle necropoli di Verucchio. La circostanza accidentale che portò alla scoperta nel 1936 di un ripostiglio di bronzi oggi classificato come protovillanoviano da un punto di vista crono- culturale fu costituita da lavori agricoli per l'impianto di un vitigno (MORICO 1984; EADEM 1996a). Ad inficiare l'attribuzione cronologica e di riflesso etnica del complesso definito genericamente “umbro”e di “età posteriore a quello di Casalecchio” a suo tempo illustrato dal Tonini (TONINI L. 1867), furono verosimilmente le già citate frequentazioni col Brizio, prima intrattenute nei corsi universitari e poi sul campo, (fig. 13). Tosi, inoltre, metteva in dubbio l'interpretazione offerta da questi al cosiddetto “2° Ripostiglio” di Casalecchio “essendo gli oggetti che ne facevano parte evidentemente oggetti di corredo funebre” (TOSI 1939, p. 58). L'utilizzo, ad onor del vero, dell'aggettivo “umbro” seguiva una formulazione di Pericle Ducati, che in parte correggeva la teoria del Brizio, riassunta nella sinonimia “umbro-villanoviano”. Tale schema rifletteva anche la difficoltà oggettiva di cogliere il momento di passaggio fra la fase recente e finale dell'età del Bronzo (ZUFFA 1978, p. 202). La scoperta si rivelava assai importante perchè evidenziava una frequentazione preromana della bassa Valle del Marecchia, sino ad allora scarsamente attestata, a differenza della cospicua documentazione archeologica proveniente dalla piccola valle del torrente Uso, custodita parte nel Museo “Renzi” di San Giovanni in Galilea, parte nel Museo di Rimini. La breve nota termina con la notizia del recupero di cinque reperti litici nei pressi di Santarcangelo di Romagna proprio nell'alveo a destra dell'Uso nel 1924 ad opera del sig. Filippo Comandini che 186 testimoniano l'insediamento umano già nel corso dell'“Età della Pietra, anche prima della venuta della gente umbra.” (TOSI 1939, p. 60). Alessandro Tosi fu personalità ufficialmente sempre estranea alle istituzioni museali riminesi (MARONI 2000), scelta che ebbe forse origine a seguito dei contrasti avuti col Brizio durante gli scavi a Verucchio (TRIPPONI 1984, p. 518). Rivestì però un ruolo chiave nelle tormentate vicende del Museo di Rimini fra le due guerre mondiali, curando fra il 1927 e il 1930, il riordinamento delle collezioni archeologiche, di cui rimane importante testimonianza in un dattiloscritto già citato (ZUFFA 1978, p. 189). In particolare si rivelò prezioso il paziente riesame dei manoscritti di Luigi Tonini al fine di ricostruire le esatte provenienze dei reperti. La scientificità e la modernità del metodo adottato si apprezza anche nella concezione museografica incentrata su uno schema topografico impostato sulla direttrice collinare Verucchio-Rimini, che ben si differenziava dall'esposizione dei materiali di età romana curata dal Soprintendente Aurigemma su una base meramente tipologica (AURIGEMMA 1934; TRIPPONI 1984, p. 520).
Poggio Berni
“SCOPERTA DI UN «RIPOSTIGLIO» UMBRO NEL COMUNE DI POGGIO BERNI (FORLÌ)” A chiudere idealmente questa lunga stagione di ricerche, si pone il rinvenimento fortuito di un “«ripostiglio» umbro” nel territorio di Poggio Berni nel Riminese, pubblicato da quell'Alessandro Tosi che quasi mezzo secolo prima si era distinto nello svolgimento di gli scavi regolari nelle necropoli di Verucchio. La circostanza accidentale che portò alla scoperta nel 1936 di un ripostiglio di bronzi oggi classificato come protovillanoviano da un punto di vista crono- culturale fu costituita da lavori agricoli per l'impianto di un vitigno (MORICO 1984; EADEM 1996a). Ad inficiare l'attribuzione cronologica e di riflesso etnica del complesso definito genericamente “umbro”e di “età posteriore a quello di Casalecchio” a suo tempo illustrato dal Tonini (TONINI L. 1867), furono verosimilmente le già citate frequentazioni col Brizio, prima intrattenute nei corsi universitari e poi sul campo, (fig. 13). Tosi, inoltre, metteva in dubbio l'interpretazione offerta da questi al cosiddetto “2° Ripostiglio” di Casalecchio “essendo gli oggetti che ne facevano parte evidentemente oggetti di corredo funebre” (TOSI 1939, p. 58). L'utilizzo, ad onor del vero, dell'aggettivo “umbro” seguiva una formulazione di Pericle Ducati, che in parte correggeva la teoria del Brizio, riassunta nella sinonimia “umbro-villanoviano”. Tale schema rifletteva anche la difficoltà oggettiva di cogliere il momento di passaggio fra la fase recente e finale dell'età del Bronzo (ZUFFA 1978, p. 202). La scoperta si rivelava assai importante perchè evidenziava una frequentazione preromana della bassa Valle del Marecchia, sino ad allora scarsamente attestata, a differenza della cospicua documentazione archeologica proveniente dalla piccola valle del torrente Uso, custodita parte nel Museo “Renzi” di San Giovanni in Galilea, parte nel Museo di Rimini. La breve nota termina con la notizia del recupero di cinque reperti litici nei pressi di Santarcangelo di Romagna proprio nell'alveo a destra dell'Uso nel 1924 ad opera del sig. Filippo Comandini che 186 testimoniano l'insediamento umano già nel corso dell'“Età della Pietra, anche prima della venuta della gente umbra.” (TOSI 1939, p. 60). Alessandro Tosi fu personalità ufficialmente sempre estranea alle istituzioni museali riminesi (MARONI 2000), scelta che ebbe forse origine a seguito dei contrasti avuti col Brizio durante gli scavi a Verucchio (TRIPPONI 1984, p. 518). Rivestì però un ruolo chiave nelle tormentate vicende del Museo di Rimini fra le due guerre mondiali, curando fra il 1927 e il 1930, il riordinamento delle collezioni archeologiche, di cui rimane importante testimonianza in un dattiloscritto già citato (ZUFFA 1978, p. 189). In particolare si rivelò prezioso il paziente riesame dei manoscritti di Luigi Tonini al fine di ricostruire le esatte provenienze dei reperti. La scientificità e la modernità del metodo adottato si apprezza anche nella concezione museografica incentrata su uno schema topografico impostato sulla direttrice collinare Verucchio-Rimini, che ben si differenziava dall'esposizione dei materiali di età romana curata dal Soprintendente Aurigemma su una base meramente tipologica (AURIGEMMA 1934; TRIPPONI 1984, p. 520).
Verucchio era nota da molto tempo come uno principali e più particolari siti dell’età del ferro in Italia. Forse il più importante perché rappresentava il centro che per vari secoli, tra il IX e il VII, aveva esercitato il controllo sull’Adriatico centrale e sulle rotte che conducevano verso l’Europa del Nord. Ne è prova, fra le altre cose, il controllo dell’ambra che a Verucchio era lavorata con tecniche raffinatissime e diffusa in tutta Italia. La particolarità verucchiese risiede nelle condizioni di seppellimento, che hanno permesso la conservazione, cosa rarissima, di oggetti preziosi in materiale deperibile, consentendoci di conoscere i prodotti di lavori artigianali o domestici di vario tipo: tessuti, legno, intrecci in vimini, cuoio. Gli scavi attuali hanno individuato complessivamente 85 tombe, alcune da identificare con quelle parzialmente indagate in precedenza, altre intaccate dai movimenti franosi che già dai tempi antichi, come oggi, coinvolgono la collina. Gli ultimi scavi nella necropoli Lippi hanno messo in evidenza un concentramento in quest’area di un gruppo di sepolture molto numeroso composto da tombe, sia di adulti che di bambini, tutti appartenenti al gruppo aristocratico che aveva l’esclusiva nell’uso di questa necropoli, ma che certamente rivestiva negli equilibri interni ruoli particolari. Ne è prova tra le altre cose il numero di tombe di guerrieri, in particolare dotati di elmo, e la presenza in parecchie deposizioni di troni in legno perfettamente leggibili, ad occhi esperti, nel terreno. Lo scavo è stato condotto con una metodologia molto accurata, sotto la direzione scientifica di Patrizia Von Eles, archeologa di questa Soprintendenza, e dei suoi collaboratori, utilizzando un sistema di documentazione che permetterà in futuro di recuperare tutte quelle informazione che lo scavo inevitabilmente distrugge. Per questi motivi, oltre che per le caratteristiche intrinseche del contesto archeologico, esso ha rappresentato un polo di attrazione per molte università italiane e straniere che in questi anni hanno inviato studenti e giovani laureati. Molte decine di loro hanno lavorato con il gruppo di archeologi e restauratori professionisti che collaborano al progetto scientifico e alcuni sono entrati a far parte dell’équipe permanente. Studiosi italiani e stranieri hanno offerto il loro contributo con seminari specialistici. E’ stato anche affrontato ed è ormai quasi completato lo studio antropologico dei reperti ossei, ed è stato realizzato un database che contiene a oggi molte migliaia di reperti e un archivio digitale che raccoglie oltre 40.000 foto. Nel corso di quest’ultima campagna 2009, sono state in particolare indagate completamente 8 sepolture e parzialmente altre due; sono stati recuperati oltre 1000 reperti documentati in migliaia di foto e in oltre 200 planimetrie di dettaglio. In parallelo è stata condotta l’attività di laboratorio per i primi interventi sui materiali recuperati, interventi essenziali per programmare quelli che dovranno essere gli impegni essenziali dei prossimi anni: il restauro e lo studio, condizioni essenziali di una seria attività di divulgazione, insieme alle attività di conservazione, ricerca e divulgazione, possibili grazie all’apporto del Museo civico archeologico verucchiese. Comune di Verucchio e Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna intendono continuare a promuovere gli studi che hanno portato Verucchio e il suo Museo ad essere considerati uno dei gioielli del patrimonio italiano. Il prossimo, ambizioso obiettivo dell’amministrazione comunale è la progettazione del Parco Archeologico, che sorgerà nell’area degli scavi e che, nelle intenzioni dell’Assessore alla Cultura Lisetta Bernardi, dovrà divenire “punto di eccellenza dell’offerta turistica e culturale della Provincia di Rimini, e non solo”. GLI SCAVI A VERUCCHIO E LA NASCITA DELLA PALETNOLOGIA SAMMARINESE L'avvenimento più significativo dell'ultimo decennio del XIX secolo per la paletnologia romagnola fu senza dubbio l'avvio di ricerche metodiche nelle necropoli pertinenti all'insediamento villanoviano di Verucchio.10 Rinvenimenti sporadici di materiali protostorici si susseguivano in realtà sin dai primi anni del XVII secolo, quando lavori per la costruzione del Convento dei Cappuccini condussero al recupero di “certe olle grandi piene di terra” (Gianettani 1618). In realtà perplessità sulla cronologia di tali scoperte sono stati avanzati in anni recenti, in quanto questi supposti cinerari proverrebbero dall'area dell'abitato. Solamente nella seconda metà dell'Ottocento il formarsi di una coscienza civica volta alla tutela ed alla conservazione delle antichità, spogliata dal gusto collezionistico propriamente tardo-illuministico, portò al formarsi delle prime raccolte private da parte di famiglie locali, per lo più di estrazione nobiliare od alto borghese. A Verucchio si ricordano quelle costituite dall'architetto neoclassico Antonio Tondini, ceduta poi dagli eredi al Museo Preistorico Etnografico di Roma (PIGORINI 1885, p. 193; GENTILI 1986, p. 2) e quelle Bianchi, Frulli, e Vergano, quest'ultima conservata ad Asti e ricordata dal solo Montelius (MONTELIUS 1895, col. 438). Anche il conte bolognese Giovanni Gozzadini entrò in possesso di materiali protostorici provenienti dal territorio verucchiese che terminarono nella propria raccolta privata conservata a lungo presso l'Archiginnasio di Bologna ed oggi confluita nel Museo Civico Archeologico di Bologna (GOZZADINI 1875; ZUFFA 1960, p. 238). Da un manoscritto inedito del paletnologo riminese Alessandro Tosi riguardante l'inventario del cosiddetto “Museo Tonini”, su cui si avrà modo di tornare, si apprende, infine, dell'esistenza di un complesso di materiali riunito da Luigi Tonini che avrebbe costituito uno dei nuclei fondanti della Galleria Archeologica riminese (TAMBURINI-MÜLLER 2006, p. 74 nota 2). La collezione più importante è però sicuramente quella formata dallo studioso Alfonso Pecci, illustrata in una succinta memoria, in cui l'autore attribuisce i resti funerari alla popolazione degli Umbri (PECCI A. 1893).11 Il figlio Giuseppe, poliedrico studioso, figura paradigmatica della “tipica tradizione umanistica della nostra gente che ebbe rigogliosa manifestazione nella Scuola Classica Romagnola” (ZAMA 1969, p. 552), continuò nell'opera del padre facendosi tutore della raccolta famigliare e del suo incremento, adoperandosi in qualche recupero (Zuffa 1978, p. 188) e dando sovente preziosa comunicazione,anche in veste divulgativa (PECCI G. 1962a), dei ritrovamenti sul colle di Verucchio anche dopo la conclusione della prima stagione di ricerche segnata dagli scavi del Ghirardini, sino alla ripresa delle indagini agli inizi degli anni '60 del secolo scorso (PECCI G. 1922; Idem 1923; Idem 1929; Idem 1936; Idem 1938; Idem 1961; Idem 1962; Idem 1963).12 Dopo questi avvenimenti fu la scoperta nel 1881 di sepolture nella proprietà Guccioli ad attirare l'attenzione di Carlo Tonini (fig. 2), regio ispettore e successore del padre Luigi alla Biblioteca Gambalunga e alla Galleria Archeologica, al quale si devono le prime relazioni di sopralluoghi a Verucchio (ZUFFA 1978, p. 186),13 e sopratutto a stimolare l'interesse di Edoardo Brizio, convinto dalla lettura dei resoconti del Tonini dell'esistenza anche nell'area riminese di necropoli dell'età del Ferro (GENTILI 1986, pp. 2-3). 10 Per una sintesi della complessa storia delle ricerche si veda (VON ELES 1998, p. 14). 11 Un breve ma accurato profilo biografico del Pecci è stato curato dal figlio Giuseppe (PECCI G. 1954). 12 “La bibliografia delle sue pubblicazioni che Egli stesso gradatamente ha compilato a mo' di schedario” (ZAMA 1969, p. 549), è stata aggiornata e completata postuma da Paola Monti (MONTI 1969). 13 Scarne le note di carattere biografico e scientifico riguardanti Carlo Tonini successore del padre Luigi “del quale continuò l'opera monumentale tutta rivolta a illuminare con l'esame critico dei documenti e il vaglio delle fonti il passato della Città di Rimini, umbra, etrusca, gallica, romana, malatestiana e risorgimentale.” (AA.VV. 1957, p. 9). Si menzionano in questa sede la silloge di articoli commemorativi appena citata pubblicata nel cinquantenario della morte (AA.VV. 1957) ed uno studio sulla direzione della Biblioteca Gambalunga da lui ricoperta tra il 1874 e il 1907 (LUCCHESI 1953-54,pp. 229-231). 169 L'occasione di intraprendere a Verucchio un'estesa campagna di scavi si presentò, tuttavia, solamente nell'aprile del 1893, quando nel podere Lavatoio detto anche campo del Tesoro avvenne la scoperta fortuita di un ossuario e di reperti metallici probabilmente pertinenti a sepolture. Il proprietario del terreno chiese di proseguire le indagini, che furono affidate al giovane naturalista Alessandro Tosi. L'approvazione a procedere all'esplorazione venne proprio dal Brizio, il quale conosceva lo studente, per il fatto che questi aveva frequentato le sue lezioni di archeologia all'Università di Bologna, per seguendo un altro cursus studiorum. Tosi procedette all'apertura di 6 trincee per un totale di circa 100 mq esplorati (fig. 3). Complessivamente si rinvennero 53 tombe ad incinerazione (TAMBURINI-MÜLLER 2006, p. 11) e “delle ossa incombuste di uno scheletro che posava colla parte superiore sopra un piano di lastra di sasso grezzo di varia forma e grandezza”. Nessun vaso od oggetto, a quanto pare, si trovò lì vicino ( TOSI 1894, p. 9). Sorprendente l'elevato numero di sepolture, particolarmente concentrate nella trincea F dalla quale provengono 30 tombe in un'area di soli 3x4,50 m, “le più l'una addossata all'altra in modo che un ossuario talora posava direttamente su quello sottoposto, tal'altra occupava il poco spazio che intercedeva fra i coni superiori di ossuari che aderenti fra loro formavano come un piano inferiore. Questi ossuari di varia grandezza, ma tutti dell'identico tipo già descritto, erano assai poveri in generale di oggetti metallici e d'ornamento” (TOSI 1894, p. 11). Prudentemente lo studioso non si addentrò nella vexata quaestio dell'attribuzione etnica, limitandosi a sottolineare più volte la similitudine con le necropoli di Poggio Renzo e Villanova. Anche il Brizio elaborò una propria relazione degli scavi del 1893 (Brizio 1894). Nello stesso anno avvenne il recupero non programmato di una sepoltura “nello accomodare una strada poco distante da Verucchio al lato N. ... posto sotto la rupe su cui sorge la rocca Malatestiana, campo fertile di frammenti fittili, e di oggetti metallici d'ogni specie, del tipo Villanova”. Fra gli oggetti di corredo “di gran lunga più interessante fra le altre cose, fu il ritrovarsi certe piastrelle quadrate di 3 cm, circa di lato, coi bordi rialzati e muniti di forellini, le quali piastre portavano ancora aderente su una loro faccia dei brani di drappo. Altri pezzi più grandi della stessa stoffa si rinvennero lì presso, stoffa che presentava ancora dei disegni di color rossiccio.” (TOSI 1894, p. 13). Forse “lusingato dal potervi recuperare qualche resto di tessuto antico” la cui presenza era segnalata nella suddetta sepoltura ubicata nel podere appartenente al canonico Sebastiano Dolci (GENTILI 2003, p. 21), o più probabilmente per trovare prove utili ad argomentare una replica al Pigorini, Brizio decise di proseguire gli scavi. Nel frattempo il paletnologo parmigiano nell'ottica di un dibattito ormai ventennale, aveva pubblicato sul “Bullettino di Paletnologia Italiana”, un contributo nel quale i risultati degli scavi del Tosi, apparentemente non dissimili dai sepolcreti terramaricoli, erano interpretati come un'ulteriore conferma della sua teoria sulla derivazione del Villanoviano dalle terramare: “Io, che fui il primo a mettere in campo il concetto della derivazione della civiltà di Villanova da quella delle terremare, e che credo di averne anche mostrato il fondamento con varî lavori inseriti in questo periodico, è naturale che ne vegga una nuova prova del fatti osservato dal Tosi. Se nei cimiteri dei terramaricoli manca l'ossuario tipico di Villanova colle sue caratteristiche decorazioni, mi par facile di spiegarlo per la distanza di tempo e pel grado diverso di sviluppo industriale che separano l'età del bronzo delle terremare e quella posteriore del ferro, durante la quale le tombe tipo di Villanova vennero costrutte.” (PIGORINI 1894, pp. 167-168) Nel 1894 vennero dunque riprese le indagini sia nel podere Lavatoio che nel fondo Dolci. La gestione delle ricerche venne affidata ad un uomo di fiducia del Brizio, Pio Zauli, funzionario della Direzione degli Scavi di Antichità. Questa scelta sottintende forse qualche “aperto malinteso” sorto col Tosi (ZUFFA 1978, p. 187), di cui si può trovare eco nelle pagine del professore bolognese (BRIZIO 1898, p. 344), originato secondo alcuni studiosi proprio dall'esegesi dei rinvenimenti della trincea F da parte del Tosi che offrirono il destro alla critica pigoriniana (TAMBURINI-MÜLLER 2006, pp. 74-75 nota 25). Lo Zauli incominciò i lavori sul finire dell'agosto, aprendo 5 trincee nei pressi degli scavi del Tosi, riuscendo a recuperare 72 tombe. Frequenti furono le relazioni inviate al Brizio che si conclusero con la redazione della pianta dello scavo. Il complesso dei materiali fu depositato presso il Museo Civico di Bologna. Il Brizio pubblicò qualche anno dopo una memoria relativa a questa campagna presso il “Fondo Ripa o Lavatoio” , precisando sin dall'esordio di essersi “caldamente raccomandato all'assistente Zauli di badare a tale novità, importantissima, della necropoli verucchiese. Ma nè egli che sorvegliò sempre i lavori con la maggiore diligenza, nè il dott. Tosi ed il dott. Tonini ed io, che ci recammo più volte ad osservarli, abbiamo veduto ripetersi quella particolarità.” (BRIZIO 1898, p. 345). Nel Fondo Dolci Brizio sperava che “altri sepolcri sarebbero apparsi in egual condizione, dai quali si sarebbero potuto ricavare dati importanti relativi alla industria tessile, così ancora poco nota, degli Umbri. Questa fu la ragione precipua, per cui col canonico Dolci, proprietario del fondo, presi gli opportuni accordi per eseguirvi delle esplorazioni. Ma le mie speranze andarono deluse.” (BRIZIO 1898, p. 368). Le tombe scavate risalgono secondo l'autore “ad un periodo più avanzato che non quelli scavati nel fondo Ripa” e corrispondono “nel complesso per età a quelle Arnoaldi-Veli della necropoli felsinea.” (BRIZIO 1898, p. 369). Ovvio dunque il confronto con “le necropoli umbre di Bologna”, secondo la volontà di inquadrare i sepolcreti di Verucchio nella sua grande costruzione etno- cronologica già ipotizzata nella prolusione al suo primo corso accademico (BRIZIO 1877). Brizio concludeva la propria ampia comunicazione con “alcune considerazioni sopra i risultati che se ne possono trarre per risolvere parecchie quistioni di paletnologia italiana. Anzitutto è rimasta esclusa la pretesa somiglianza fra essi ed i sepolcri delle terremare per quanto riguarda la deposizione degli ossuarî. Questi non si sono trovati mai, neppure nell'arcaico sepolcreto Ripa, né contigui gli uni agli altri, nè su due piani immediatamente sovrapposti. Tutte le tombe al contrario aveano la propria fossa e distavano l'una dall'altra almeno cinquanta centim.” La sovrapposizione di alcuni cinerari in punti ben precisi sarebbe dovuta “ai secolari denudamenti del terreno declive, ed ai ripetuti lavori agricoli ... Ma la diversità della suppellettile chiaramente dimostra che il sepolcro superiore era di un periodo più tardo che non quello inferiore” come “nei sepolcreti felsinei dei predi Benacci, De Lucca ed Arnoaldi. Oltreciò nessun ossuario, nessun bronzo fu rinvenuto a Verucchio che ricordi la civiltà delle terremare.” (BRIZIO 1898, p. 387). Sicuramente più stringenti le corrispondenze con la necropoli di Novilara che Brizio aveva esplorato negli stessi anni (BRIZIO 1895). Tosi condusse un'ultima campagna di ricerche nel 1895 nel fondo Fabbri-Giovannini all'estremo margine settentrionale dei nuclei sepolcrali (TOSI 1896). I materiali confluirono nel Museo Comunale di Rimini ed in parte nel Museo Civico di Bologna (GENTILI 2003, p. 22). Anche Pigorini riprese la notizia degli scavi, producendosi in un'approfondita disamina dei corredi recuperati e soffermandosi, in particolare, su un pugnale o spada corta che dai confronti istituiti testimonierebbe come “nell'Italia superiore si passa gradatamente dall'una all'altra fase della civiltà della prima età del ferro.” (PIGORINI 1896, p. 247) Le indagini a Verucchio si conclusero con una prima esplorazione dell'area dell'abitato condotta da Gherardo Ghirardini, succeduto al Brizio nei suoi molteplici ruoli istituzionali (Università, Museo Civico, Soprintendenza) a Piano del Monte in località Monte Ugone. Furono rintracciati una serie di depositi circolari di strutture interpretabili come focolari e fondi di capanne senza tracce di palificazione, integralmente obliterate (GENTILI 2003, p. 17). La precoce scomparsa dell'accademico non permise di realizzare l'edizione degli scavi, pubblicati postumi dal Rellini che già nel 1916 aveva effettuato sopralluoghi nella zona dell'insediamento ed esaminato la collezione Pecci (RELLINI 171 1923, p. 104). Indagini sistematiche ripresero sul colle di Verucchio solamente agli inizio degli anni '60 del secolo scorso (ZUFFA 1963) (fig. 4). Le ricerche nel territorio verucchiese attirano la curiosità nei confronti delle antichità preistoriche anche nella vicina Repubblica di San Marino. Già il Brizio elencando le necropoli appartenenti alla popolazione degli Umbri, ricordava i rinvenimenti tipo Villanova di San Martino in Venti e San Marino (BRIZIO 1900, pp. CXXI-CXXVIII), riferendosi probabilmente “ai vari oggetti umbri scavati nelle vigne Manzoni presso il confine, già notati dal Dottori Tonini nella Storia di Rimini, e ad altri casualmente rinvenuti in quel di S. Martino in Venti” (FATTORI 1914, p. 24). Sfortunatamente delle scoperte effettuate nel 1881 nel fondo di proprietà del conte Manzoni (bronzi, fusaiole, elementi in ambra e frammenti ceramici) rimangono solamente alcune riproduzioni grafiche. (DE MARINI 1988, p. 18). A San Marino sin dal 1899 era stato inaugurato il Museo di Stato annesso alla Biblioteca nella quale in precedenza si erano conservate le collezioni e i doni provenienti da numerosi privati ed enti culturali stranieri. Il primo impulso a creare un istituto museale locale fu dato dallo statista piemontese Luigi Cibrario, senatore e ministro del Regno Sabaudo, nonché studioso di Medioevo e di ordini cavallereschi e sopratutto consultore e plenipotenziario della Repubblica di San Marino fra il 1859 e il 1870 (PASINI 2004, p. 9). La costituzione di un proprio museo rappresentava per la millenaria repubblica un'esigenza imprescindibile nel quadro storico post-risorgimentale. L'unificazione italiana costitutiva, infatti, un potenziale pericolo per l'integrità e l'indipendenza nazionale. Si necessitava della creazione di strumenti tangibili che dessero credito internazionale all'autonomia e all'autogoverno. “La costituzione di un museo pubblico, luogo delle memorie, delle vocazioni culturali, dell'estimazione degli altri, non rappresentò dunque per San Marino solo un lustro dell'orgoglio civico, ma una concreta risposta alla propria esigenza di autorappresentazione.” (MICHELOTTI 2004, p. 10) Sin da subito l'iniziativa del Cibrario incontrò larghi consensi a livello locale ed internazionale, presso tutti i sostenitori del prototipo repubblicano ultrasecolare sammarinese, ma solo con l'apertura vera e propria del Museo si giunse ad un primo ordinamento delle caotiche raccolte. I curatori, Federico Gozi ed Onofrio Fattori, ricorsero per l'allestimento alle consulenze di illustri studiosi, quali Ernesto Schiapparelli, Carlo Tonini ed Edoado Brizio (fig. 5). Quest'ultimo a causa dei numerosi impegni professionali non riuscì a visionare personalmente le collezioni, limitandosi a scambi epistolari specialmente col Fattori, che seguì i suoi corsi all'Università di Bologna, e ad esaminare una fibula da lui ritenuta longobarda. Si deve allora alla visita di Innocenzo Dall'Osso nel 1912 una prima definizione dei pochi reperti preistorici autoctoni del museo di San Marino. L'allora “Sovrintendente per i Musei e Scavi di antichità di Marche ed Abruzzi e Direttore del Museo Archeologico di Ancona”, fu richiamato dalla scoperta in località Fiorentino l'anno precedente di una necropoli romana, datata sulla base dell'analisi della ceramica “al principio della conquista romana della Gallia” (FATTORI 1914, p. 31) Con particolare interesse Dall'Osso esaminò “un'ascia piatta di bronzo ad alette, che egli disse esemplare splendido, appartenente senza dubbio all'età del bronzo ... Il rinvenimento dell'ascia di bronzo entro blocchetti di tufo – come da noi gli fu detto – in fondo alla vallata di Casole, fa supporre al Professore che tale ascia fosse stata smarrita durante la caccia degli abitatori del Titano, essendochè le stazioni eneolitiche e del bronzo si trovano sempre sulle alture... L'ascia di bronzo per lui prova che su questa altura erano stanziati popoli dell'età del bronzo e forse anche dell'età del rame e della pietra, giacchè questi ultimi – cavernicoli e capannicoli – vagarono sulle alte cime dei monti, prima di scendere ai piani, ancora forse inondati dalle acque. E quando scesero nella bassa pianura presso corsi d'acqua a quei tempi non regolati, costruirono – come pensano gli archeologi – quel che si dissero le terremare, simili alle palafitte lacustri, cioè capanne innalzate su palafitte piantate in terreno asciutto, circondate, per difesa da una fossa o canale scaricatore e da un argine di terra rafforzato, ora all'interno ora all'esterno, da gabbioni.” (FATTORI 1914, pp. 28-29). Altro reperto degno di nota era un “rasoio lunato” villanoviano rinvenuto fortuitamente nel 1826 nel corso dei lavori di demolizione dell'antica Pieve (BOTTAZZI, BIGI 2005, scheda 4). Esso sarebbe “la prova che l'altura di San Marino sia stata abitata anche nell'età del ferro dalle stesse famiglie che ivi raggiunsero l'età siderurgica, o ad altre ad esse sovrapposte” (FATTORI 1914, p. 29). Le circostanze del recupero “fra i relitti della Pieve, attesta che questo oggetto era in posto, perchè ordinariamente la Chiesa Cristiana si è sovrapposta al sacrario pagano, e questo all'abitato preistorico ... Il coltello-rasoio della prima età del ferro appartiene tanto alla popolazione ariana di stipite villanoviana, quanto a quella picena di stipite mediterranea.” (FATTORI 1914, p. 29). Un ulteriore ritrovamento avvenuto nei pressi della cava di pietra dismessa in prossimità della località Fossi, ovvero un “profondo strato nerastro di terra”, avrebbe potuto “contenere i relitti dell'antichissimo abitato” forse formato “con gli avanzi di un primitivo villaggio capannicolo.” (FATTORI 1914, pp. 29-30). Le relazioni del Dall'Osso infiammarono l'entusiasmo dei dotti locali ed apparentemente anche dei nuovi Capitani Reggenti insediatisi nello stesso anno, ma “le indagini, nonostante le continue sollecitazioni dei Conservatori del Museo del tempo e della Commissione Governativa per i Ricordi Storici Sammarinesi e le Antichità, rimasero purtroppo un pio desiderio.” (FATTORI 1936, pp. 200-201) Nemmeno il recupero di alcuni manufatti fittili nel novembre del 1935 nella cava vicina all'ex macchia dei Cappuccini, fra la prima e la seconda Torre, attribuiti agli Umbri (FATTORI 1936, p. 188), si rivelò utile per intraprendere sistematiche ricerche archeologiche sul campo e così le speranze e gli inviti di numerosi studiosi dell'epoca, fra i quali Felice Bernabei, Corrado Ricci, Gherardo Ghirardini, Albano Sorbelli, andarono deluse (FATTORI 1936, p. 200). Emblematico il fatto che lo stesso Fattori nel 1937 pubblicando un opuscolo riguardante il patrimonio artistico sammarinese, dedicasse pochissimo spazio alle antichità preistoriche (FATTORI 1937, pp. 4-5; GHIROTTI 1994, p. 102).
49 người dân địa phương đề xuất
Verucchio
49 người dân địa phương đề xuất
Verucchio era nota da molto tempo come uno principali e più particolari siti dell’età del ferro in Italia. Forse il più importante perché rappresentava il centro che per vari secoli, tra il IX e il VII, aveva esercitato il controllo sull’Adriatico centrale e sulle rotte che conducevano verso l’Europa del Nord. Ne è prova, fra le altre cose, il controllo dell’ambra che a Verucchio era lavorata con tecniche raffinatissime e diffusa in tutta Italia. La particolarità verucchiese risiede nelle condizioni di seppellimento, che hanno permesso la conservazione, cosa rarissima, di oggetti preziosi in materiale deperibile, consentendoci di conoscere i prodotti di lavori artigianali o domestici di vario tipo: tessuti, legno, intrecci in vimini, cuoio. Gli scavi attuali hanno individuato complessivamente 85 tombe, alcune da identificare con quelle parzialmente indagate in precedenza, altre intaccate dai movimenti franosi che già dai tempi antichi, come oggi, coinvolgono la collina. Gli ultimi scavi nella necropoli Lippi hanno messo in evidenza un concentramento in quest’area di un gruppo di sepolture molto numeroso composto da tombe, sia di adulti che di bambini, tutti appartenenti al gruppo aristocratico che aveva l’esclusiva nell’uso di questa necropoli, ma che certamente rivestiva negli equilibri interni ruoli particolari. Ne è prova tra le altre cose il numero di tombe di guerrieri, in particolare dotati di elmo, e la presenza in parecchie deposizioni di troni in legno perfettamente leggibili, ad occhi esperti, nel terreno. Lo scavo è stato condotto con una metodologia molto accurata, sotto la direzione scientifica di Patrizia Von Eles, archeologa di questa Soprintendenza, e dei suoi collaboratori, utilizzando un sistema di documentazione che permetterà in futuro di recuperare tutte quelle informazione che lo scavo inevitabilmente distrugge. Per questi motivi, oltre che per le caratteristiche intrinseche del contesto archeologico, esso ha rappresentato un polo di attrazione per molte università italiane e straniere che in questi anni hanno inviato studenti e giovani laureati. Molte decine di loro hanno lavorato con il gruppo di archeologi e restauratori professionisti che collaborano al progetto scientifico e alcuni sono entrati a far parte dell’équipe permanente. Studiosi italiani e stranieri hanno offerto il loro contributo con seminari specialistici. E’ stato anche affrontato ed è ormai quasi completato lo studio antropologico dei reperti ossei, ed è stato realizzato un database che contiene a oggi molte migliaia di reperti e un archivio digitale che raccoglie oltre 40.000 foto. Nel corso di quest’ultima campagna 2009, sono state in particolare indagate completamente 8 sepolture e parzialmente altre due; sono stati recuperati oltre 1000 reperti documentati in migliaia di foto e in oltre 200 planimetrie di dettaglio. In parallelo è stata condotta l’attività di laboratorio per i primi interventi sui materiali recuperati, interventi essenziali per programmare quelli che dovranno essere gli impegni essenziali dei prossimi anni: il restauro e lo studio, condizioni essenziali di una seria attività di divulgazione, insieme alle attività di conservazione, ricerca e divulgazione, possibili grazie all’apporto del Museo civico archeologico verucchiese. Comune di Verucchio e Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna intendono continuare a promuovere gli studi che hanno portato Verucchio e il suo Museo ad essere considerati uno dei gioielli del patrimonio italiano. Il prossimo, ambizioso obiettivo dell’amministrazione comunale è la progettazione del Parco Archeologico, che sorgerà nell’area degli scavi e che, nelle intenzioni dell’Assessore alla Cultura Lisetta Bernardi, dovrà divenire “punto di eccellenza dell’offerta turistica e culturale della Provincia di Rimini, e non solo”. GLI SCAVI A VERUCCHIO E LA NASCITA DELLA PALETNOLOGIA SAMMARINESE L'avvenimento più significativo dell'ultimo decennio del XIX secolo per la paletnologia romagnola fu senza dubbio l'avvio di ricerche metodiche nelle necropoli pertinenti all'insediamento villanoviano di Verucchio.10 Rinvenimenti sporadici di materiali protostorici si susseguivano in realtà sin dai primi anni del XVII secolo, quando lavori per la costruzione del Convento dei Cappuccini condussero al recupero di “certe olle grandi piene di terra” (Gianettani 1618). In realtà perplessità sulla cronologia di tali scoperte sono stati avanzati in anni recenti, in quanto questi supposti cinerari proverrebbero dall'area dell'abitato. Solamente nella seconda metà dell'Ottocento il formarsi di una coscienza civica volta alla tutela ed alla conservazione delle antichità, spogliata dal gusto collezionistico propriamente tardo-illuministico, portò al formarsi delle prime raccolte private da parte di famiglie locali, per lo più di estrazione nobiliare od alto borghese. A Verucchio si ricordano quelle costituite dall'architetto neoclassico Antonio Tondini, ceduta poi dagli eredi al Museo Preistorico Etnografico di Roma (PIGORINI 1885, p. 193; GENTILI 1986, p. 2) e quelle Bianchi, Frulli, e Vergano, quest'ultima conservata ad Asti e ricordata dal solo Montelius (MONTELIUS 1895, col. 438). Anche il conte bolognese Giovanni Gozzadini entrò in possesso di materiali protostorici provenienti dal territorio verucchiese che terminarono nella propria raccolta privata conservata a lungo presso l'Archiginnasio di Bologna ed oggi confluita nel Museo Civico Archeologico di Bologna (GOZZADINI 1875; ZUFFA 1960, p. 238). Da un manoscritto inedito del paletnologo riminese Alessandro Tosi riguardante l'inventario del cosiddetto “Museo Tonini”, su cui si avrà modo di tornare, si apprende, infine, dell'esistenza di un complesso di materiali riunito da Luigi Tonini che avrebbe costituito uno dei nuclei fondanti della Galleria Archeologica riminese (TAMBURINI-MÜLLER 2006, p. 74 nota 2). La collezione più importante è però sicuramente quella formata dallo studioso Alfonso Pecci, illustrata in una succinta memoria, in cui l'autore attribuisce i resti funerari alla popolazione degli Umbri (PECCI A. 1893).11 Il figlio Giuseppe, poliedrico studioso, figura paradigmatica della “tipica tradizione umanistica della nostra gente che ebbe rigogliosa manifestazione nella Scuola Classica Romagnola” (ZAMA 1969, p. 552), continuò nell'opera del padre facendosi tutore della raccolta famigliare e del suo incremento, adoperandosi in qualche recupero (Zuffa 1978, p. 188) e dando sovente preziosa comunicazione,anche in veste divulgativa (PECCI G. 1962a), dei ritrovamenti sul colle di Verucchio anche dopo la conclusione della prima stagione di ricerche segnata dagli scavi del Ghirardini, sino alla ripresa delle indagini agli inizi degli anni '60 del secolo scorso (PECCI G. 1922; Idem 1923; Idem 1929; Idem 1936; Idem 1938; Idem 1961; Idem 1962; Idem 1963).12 Dopo questi avvenimenti fu la scoperta nel 1881 di sepolture nella proprietà Guccioli ad attirare l'attenzione di Carlo Tonini (fig. 2), regio ispettore e successore del padre Luigi alla Biblioteca Gambalunga e alla Galleria Archeologica, al quale si devono le prime relazioni di sopralluoghi a Verucchio (ZUFFA 1978, p. 186),13 e sopratutto a stimolare l'interesse di Edoardo Brizio, convinto dalla lettura dei resoconti del Tonini dell'esistenza anche nell'area riminese di necropoli dell'età del Ferro (GENTILI 1986, pp. 2-3). 10 Per una sintesi della complessa storia delle ricerche si veda (VON ELES 1998, p. 14). 11 Un breve ma accurato profilo biografico del Pecci è stato curato dal figlio Giuseppe (PECCI G. 1954). 12 “La bibliografia delle sue pubblicazioni che Egli stesso gradatamente ha compilato a mo' di schedario” (ZAMA 1969, p. 549), è stata aggiornata e completata postuma da Paola Monti (MONTI 1969). 13 Scarne le note di carattere biografico e scientifico riguardanti Carlo Tonini successore del padre Luigi “del quale continuò l'opera monumentale tutta rivolta a illuminare con l'esame critico dei documenti e il vaglio delle fonti il passato della Città di Rimini, umbra, etrusca, gallica, romana, malatestiana e risorgimentale.” (AA.VV. 1957, p. 9). Si menzionano in questa sede la silloge di articoli commemorativi appena citata pubblicata nel cinquantenario della morte (AA.VV. 1957) ed uno studio sulla direzione della Biblioteca Gambalunga da lui ricoperta tra il 1874 e il 1907 (LUCCHESI 1953-54,pp. 229-231). 169 L'occasione di intraprendere a Verucchio un'estesa campagna di scavi si presentò, tuttavia, solamente nell'aprile del 1893, quando nel podere Lavatoio detto anche campo del Tesoro avvenne la scoperta fortuita di un ossuario e di reperti metallici probabilmente pertinenti a sepolture. Il proprietario del terreno chiese di proseguire le indagini, che furono affidate al giovane naturalista Alessandro Tosi. L'approvazione a procedere all'esplorazione venne proprio dal Brizio, il quale conosceva lo studente, per il fatto che questi aveva frequentato le sue lezioni di archeologia all'Università di Bologna, per seguendo un altro cursus studiorum. Tosi procedette all'apertura di 6 trincee per un totale di circa 100 mq esplorati (fig. 3). Complessivamente si rinvennero 53 tombe ad incinerazione (TAMBURINI-MÜLLER 2006, p. 11) e “delle ossa incombuste di uno scheletro che posava colla parte superiore sopra un piano di lastra di sasso grezzo di varia forma e grandezza”. Nessun vaso od oggetto, a quanto pare, si trovò lì vicino ( TOSI 1894, p. 9). Sorprendente l'elevato numero di sepolture, particolarmente concentrate nella trincea F dalla quale provengono 30 tombe in un'area di soli 3x4,50 m, “le più l'una addossata all'altra in modo che un ossuario talora posava direttamente su quello sottoposto, tal'altra occupava il poco spazio che intercedeva fra i coni superiori di ossuari che aderenti fra loro formavano come un piano inferiore. Questi ossuari di varia grandezza, ma tutti dell'identico tipo già descritto, erano assai poveri in generale di oggetti metallici e d'ornamento” (TOSI 1894, p. 11). Prudentemente lo studioso non si addentrò nella vexata quaestio dell'attribuzione etnica, limitandosi a sottolineare più volte la similitudine con le necropoli di Poggio Renzo e Villanova. Anche il Brizio elaborò una propria relazione degli scavi del 1893 (Brizio 1894). Nello stesso anno avvenne il recupero non programmato di una sepoltura “nello accomodare una strada poco distante da Verucchio al lato N. ... posto sotto la rupe su cui sorge la rocca Malatestiana, campo fertile di frammenti fittili, e di oggetti metallici d'ogni specie, del tipo Villanova”. Fra gli oggetti di corredo “di gran lunga più interessante fra le altre cose, fu il ritrovarsi certe piastrelle quadrate di 3 cm, circa di lato, coi bordi rialzati e muniti di forellini, le quali piastre portavano ancora aderente su una loro faccia dei brani di drappo. Altri pezzi più grandi della stessa stoffa si rinvennero lì presso, stoffa che presentava ancora dei disegni di color rossiccio.” (TOSI 1894, p. 13). Forse “lusingato dal potervi recuperare qualche resto di tessuto antico” la cui presenza era segnalata nella suddetta sepoltura ubicata nel podere appartenente al canonico Sebastiano Dolci (GENTILI 2003, p. 21), o più probabilmente per trovare prove utili ad argomentare una replica al Pigorini, Brizio decise di proseguire gli scavi. Nel frattempo il paletnologo parmigiano nell'ottica di un dibattito ormai ventennale, aveva pubblicato sul “Bullettino di Paletnologia Italiana”, un contributo nel quale i risultati degli scavi del Tosi, apparentemente non dissimili dai sepolcreti terramaricoli, erano interpretati come un'ulteriore conferma della sua teoria sulla derivazione del Villanoviano dalle terramare: “Io, che fui il primo a mettere in campo il concetto della derivazione della civiltà di Villanova da quella delle terremare, e che credo di averne anche mostrato il fondamento con varî lavori inseriti in questo periodico, è naturale che ne vegga una nuova prova del fatti osservato dal Tosi. Se nei cimiteri dei terramaricoli manca l'ossuario tipico di Villanova colle sue caratteristiche decorazioni, mi par facile di spiegarlo per la distanza di tempo e pel grado diverso di sviluppo industriale che separano l'età del bronzo delle terremare e quella posteriore del ferro, durante la quale le tombe tipo di Villanova vennero costrutte.” (PIGORINI 1894, pp. 167-168) Nel 1894 vennero dunque riprese le indagini sia nel podere Lavatoio che nel fondo Dolci. La gestione delle ricerche venne affidata ad un uomo di fiducia del Brizio, Pio Zauli, funzionario della Direzione degli Scavi di Antichità. Questa scelta sottintende forse qualche “aperto malinteso” sorto col Tosi (ZUFFA 1978, p. 187), di cui si può trovare eco nelle pagine del professore bolognese (BRIZIO 1898, p. 344), originato secondo alcuni studiosi proprio dall'esegesi dei rinvenimenti della trincea F da parte del Tosi che offrirono il destro alla critica pigoriniana (TAMBURINI-MÜLLER 2006, pp. 74-75 nota 25). Lo Zauli incominciò i lavori sul finire dell'agosto, aprendo 5 trincee nei pressi degli scavi del Tosi, riuscendo a recuperare 72 tombe. Frequenti furono le relazioni inviate al Brizio che si conclusero con la redazione della pianta dello scavo. Il complesso dei materiali fu depositato presso il Museo Civico di Bologna. Il Brizio pubblicò qualche anno dopo una memoria relativa a questa campagna presso il “Fondo Ripa o Lavatoio” , precisando sin dall'esordio di essersi “caldamente raccomandato all'assistente Zauli di badare a tale novità, importantissima, della necropoli verucchiese. Ma nè egli che sorvegliò sempre i lavori con la maggiore diligenza, nè il dott. Tosi ed il dott. Tonini ed io, che ci recammo più volte ad osservarli, abbiamo veduto ripetersi quella particolarità.” (BRIZIO 1898, p. 345). Nel Fondo Dolci Brizio sperava che “altri sepolcri sarebbero apparsi in egual condizione, dai quali si sarebbero potuto ricavare dati importanti relativi alla industria tessile, così ancora poco nota, degli Umbri. Questa fu la ragione precipua, per cui col canonico Dolci, proprietario del fondo, presi gli opportuni accordi per eseguirvi delle esplorazioni. Ma le mie speranze andarono deluse.” (BRIZIO 1898, p. 368). Le tombe scavate risalgono secondo l'autore “ad un periodo più avanzato che non quelli scavati nel fondo Ripa” e corrispondono “nel complesso per età a quelle Arnoaldi-Veli della necropoli felsinea.” (BRIZIO 1898, p. 369). Ovvio dunque il confronto con “le necropoli umbre di Bologna”, secondo la volontà di inquadrare i sepolcreti di Verucchio nella sua grande costruzione etno- cronologica già ipotizzata nella prolusione al suo primo corso accademico (BRIZIO 1877). Brizio concludeva la propria ampia comunicazione con “alcune considerazioni sopra i risultati che se ne possono trarre per risolvere parecchie quistioni di paletnologia italiana. Anzitutto è rimasta esclusa la pretesa somiglianza fra essi ed i sepolcri delle terremare per quanto riguarda la deposizione degli ossuarî. Questi non si sono trovati mai, neppure nell'arcaico sepolcreto Ripa, né contigui gli uni agli altri, nè su due piani immediatamente sovrapposti. Tutte le tombe al contrario aveano la propria fossa e distavano l'una dall'altra almeno cinquanta centim.” La sovrapposizione di alcuni cinerari in punti ben precisi sarebbe dovuta “ai secolari denudamenti del terreno declive, ed ai ripetuti lavori agricoli ... Ma la diversità della suppellettile chiaramente dimostra che il sepolcro superiore era di un periodo più tardo che non quello inferiore” come “nei sepolcreti felsinei dei predi Benacci, De Lucca ed Arnoaldi. Oltreciò nessun ossuario, nessun bronzo fu rinvenuto a Verucchio che ricordi la civiltà delle terremare.” (BRIZIO 1898, p. 387). Sicuramente più stringenti le corrispondenze con la necropoli di Novilara che Brizio aveva esplorato negli stessi anni (BRIZIO 1895). Tosi condusse un'ultima campagna di ricerche nel 1895 nel fondo Fabbri-Giovannini all'estremo margine settentrionale dei nuclei sepolcrali (TOSI 1896). I materiali confluirono nel Museo Comunale di Rimini ed in parte nel Museo Civico di Bologna (GENTILI 2003, p. 22). Anche Pigorini riprese la notizia degli scavi, producendosi in un'approfondita disamina dei corredi recuperati e soffermandosi, in particolare, su un pugnale o spada corta che dai confronti istituiti testimonierebbe come “nell'Italia superiore si passa gradatamente dall'una all'altra fase della civiltà della prima età del ferro.” (PIGORINI 1896, p. 247) Le indagini a Verucchio si conclusero con una prima esplorazione dell'area dell'abitato condotta da Gherardo Ghirardini, succeduto al Brizio nei suoi molteplici ruoli istituzionali (Università, Museo Civico, Soprintendenza) a Piano del Monte in località Monte Ugone. Furono rintracciati una serie di depositi circolari di strutture interpretabili come focolari e fondi di capanne senza tracce di palificazione, integralmente obliterate (GENTILI 2003, p. 17). La precoce scomparsa dell'accademico non permise di realizzare l'edizione degli scavi, pubblicati postumi dal Rellini che già nel 1916 aveva effettuato sopralluoghi nella zona dell'insediamento ed esaminato la collezione Pecci (RELLINI 171 1923, p. 104). Indagini sistematiche ripresero sul colle di Verucchio solamente agli inizio degli anni '60 del secolo scorso (ZUFFA 1963) (fig. 4). Le ricerche nel territorio verucchiese attirano la curiosità nei confronti delle antichità preistoriche anche nella vicina Repubblica di San Marino. Già il Brizio elencando le necropoli appartenenti alla popolazione degli Umbri, ricordava i rinvenimenti tipo Villanova di San Martino in Venti e San Marino (BRIZIO 1900, pp. CXXI-CXXVIII), riferendosi probabilmente “ai vari oggetti umbri scavati nelle vigne Manzoni presso il confine, già notati dal Dottori Tonini nella Storia di Rimini, e ad altri casualmente rinvenuti in quel di S. Martino in Venti” (FATTORI 1914, p. 24). Sfortunatamente delle scoperte effettuate nel 1881 nel fondo di proprietà del conte Manzoni (bronzi, fusaiole, elementi in ambra e frammenti ceramici) rimangono solamente alcune riproduzioni grafiche. (DE MARINI 1988, p. 18). A San Marino sin dal 1899 era stato inaugurato il Museo di Stato annesso alla Biblioteca nella quale in precedenza si erano conservate le collezioni e i doni provenienti da numerosi privati ed enti culturali stranieri. Il primo impulso a creare un istituto museale locale fu dato dallo statista piemontese Luigi Cibrario, senatore e ministro del Regno Sabaudo, nonché studioso di Medioevo e di ordini cavallereschi e sopratutto consultore e plenipotenziario della Repubblica di San Marino fra il 1859 e il 1870 (PASINI 2004, p. 9). La costituzione di un proprio museo rappresentava per la millenaria repubblica un'esigenza imprescindibile nel quadro storico post-risorgimentale. L'unificazione italiana costitutiva, infatti, un potenziale pericolo per l'integrità e l'indipendenza nazionale. Si necessitava della creazione di strumenti tangibili che dessero credito internazionale all'autonomia e all'autogoverno. “La costituzione di un museo pubblico, luogo delle memorie, delle vocazioni culturali, dell'estimazione degli altri, non rappresentò dunque per San Marino solo un lustro dell'orgoglio civico, ma una concreta risposta alla propria esigenza di autorappresentazione.” (MICHELOTTI 2004, p. 10) Sin da subito l'iniziativa del Cibrario incontrò larghi consensi a livello locale ed internazionale, presso tutti i sostenitori del prototipo repubblicano ultrasecolare sammarinese, ma solo con l'apertura vera e propria del Museo si giunse ad un primo ordinamento delle caotiche raccolte. I curatori, Federico Gozi ed Onofrio Fattori, ricorsero per l'allestimento alle consulenze di illustri studiosi, quali Ernesto Schiapparelli, Carlo Tonini ed Edoado Brizio (fig. 5). Quest'ultimo a causa dei numerosi impegni professionali non riuscì a visionare personalmente le collezioni, limitandosi a scambi epistolari specialmente col Fattori, che seguì i suoi corsi all'Università di Bologna, e ad esaminare una fibula da lui ritenuta longobarda. Si deve allora alla visita di Innocenzo Dall'Osso nel 1912 una prima definizione dei pochi reperti preistorici autoctoni del museo di San Marino. L'allora “Sovrintendente per i Musei e Scavi di antichità di Marche ed Abruzzi e Direttore del Museo Archeologico di Ancona”, fu richiamato dalla scoperta in località Fiorentino l'anno precedente di una necropoli romana, datata sulla base dell'analisi della ceramica “al principio della conquista romana della Gallia” (FATTORI 1914, p. 31) Con particolare interesse Dall'Osso esaminò “un'ascia piatta di bronzo ad alette, che egli disse esemplare splendido, appartenente senza dubbio all'età del bronzo ... Il rinvenimento dell'ascia di bronzo entro blocchetti di tufo – come da noi gli fu detto – in fondo alla vallata di Casole, fa supporre al Professore che tale ascia fosse stata smarrita durante la caccia degli abitatori del Titano, essendochè le stazioni eneolitiche e del bronzo si trovano sempre sulle alture... L'ascia di bronzo per lui prova che su questa altura erano stanziati popoli dell'età del bronzo e forse anche dell'età del rame e della pietra, giacchè questi ultimi – cavernicoli e capannicoli – vagarono sulle alte cime dei monti, prima di scendere ai piani, ancora forse inondati dalle acque. E quando scesero nella bassa pianura presso corsi d'acqua a quei tempi non regolati, costruirono – come pensano gli archeologi – quel che si dissero le terremare, simili alle palafitte lacustri, cioè capanne innalzate su palafitte piantate in terreno asciutto, circondate, per difesa da una fossa o canale scaricatore e da un argine di terra rafforzato, ora all'interno ora all'esterno, da gabbioni.” (FATTORI 1914, pp. 28-29). Altro reperto degno di nota era un “rasoio lunato” villanoviano rinvenuto fortuitamente nel 1826 nel corso dei lavori di demolizione dell'antica Pieve (BOTTAZZI, BIGI 2005, scheda 4). Esso sarebbe “la prova che l'altura di San Marino sia stata abitata anche nell'età del ferro dalle stesse famiglie che ivi raggiunsero l'età siderurgica, o ad altre ad esse sovrapposte” (FATTORI 1914, p. 29). Le circostanze del recupero “fra i relitti della Pieve, attesta che questo oggetto era in posto, perchè ordinariamente la Chiesa Cristiana si è sovrapposta al sacrario pagano, e questo all'abitato preistorico ... Il coltello-rasoio della prima età del ferro appartiene tanto alla popolazione ariana di stipite villanoviana, quanto a quella picena di stipite mediterranea.” (FATTORI 1914, p. 29). Un ulteriore ritrovamento avvenuto nei pressi della cava di pietra dismessa in prossimità della località Fossi, ovvero un “profondo strato nerastro di terra”, avrebbe potuto “contenere i relitti dell'antichissimo abitato” forse formato “con gli avanzi di un primitivo villaggio capannicolo.” (FATTORI 1914, pp. 29-30). Le relazioni del Dall'Osso infiammarono l'entusiasmo dei dotti locali ed apparentemente anche dei nuovi Capitani Reggenti insediatisi nello stesso anno, ma “le indagini, nonostante le continue sollecitazioni dei Conservatori del Museo del tempo e della Commissione Governativa per i Ricordi Storici Sammarinesi e le Antichità, rimasero purtroppo un pio desiderio.” (FATTORI 1936, pp. 200-201) Nemmeno il recupero di alcuni manufatti fittili nel novembre del 1935 nella cava vicina all'ex macchia dei Cappuccini, fra la prima e la seconda Torre, attribuiti agli Umbri (FATTORI 1936, p. 188), si rivelò utile per intraprendere sistematiche ricerche archeologiche sul campo e così le speranze e gli inviti di numerosi studiosi dell'epoca, fra i quali Felice Bernabei, Corrado Ricci, Gherardo Ghirardini, Albano Sorbelli, andarono deluse (FATTORI 1936, p. 200). Emblematico il fatto che lo stesso Fattori nel 1937 pubblicando un opuscolo riguardante il patrimonio artistico sammarinese, dedicasse pochissimo spazio alle antichità preistoriche (FATTORI 1937, pp. 4-5; GHIROTTI 1994, p. 102).
IL NATURALISTA PIETRO ZANGHERI E IL MUSEO DI STORIA NATURALE DELLA ROMAGNA Negli stessi anni nel Forlivese il testimone del Santarelli fu idealmente raccolto da uno studioso, Pietro Zangheri, affatto particolare che fece dello studio delle scienze naturali lo scopo della sua vita, pur dedicando alla paletnologia un ruolo probabilmente accessorio ma conseguendo senza dubbio risultati apprezzabili, in special modo se rapportati agli studi di preistoria condotti nel medesimo periodo in Romagna. Vista la naturale singolare di questa figura non si può prescindere dalla narrazione di alcuni episodi della biografia privata che concorrono a sottolinearne ancor di più la levatura scientifica. Nato a Forlì nel 1889, seguì per volere paterno studi di ragioneria pur accostandosi sin da giovanissimo alla ricerca naturalistica.17 Al 1909 risale la prima pubblicazione di carattere scientifico: “Appunti sulla flora nei dintorni di Forlì” (ZANGHERI 1909). Scorrendo la sua bibliografia scientifica (CICOGNANI et alii 1985, a cura di) si comprende però come decisivo per la sua maturazione di ricercatore fu paradossalmente lo scoppio della prima guerra mondiale. Assegnato, infatti, all'ospedale militare di Torino, per l'esperienza nella Sanità precedentemente accumulata durante la leva militare, ebbe modo di entrare in contatto con grandissime figure di studiosi che frequentavano l'Orto Botanico del capoluogo piemontese. Fra i più rilevanti si possono citare Giovanni Negri, che lo istruì allo studio della fitogeografia, Alberto Chiarugi, Raffaele Ciferri e Antonio Berlese, ma sopratutto l'entomologo di fama mondiale Mario Bezzi. Fu questi infatti a suggerire a Zangheri una precisa e rigorosa metodologia di studio e di lavoro, indirizzata alla costituzione di una raccolta completa di insetti di tutta la Romagna. Si tratta in nuce dell'idea di creare un “Museo di Storia Naturale della Romagna”, progetto sotteso a tutta l'attività scientifica del naturalista forlivese. Terminata la guerra Zangheri tornò nella città natale e trovò lavoro presso la locale casa di riposo, di cui divenne in 17 Nella relativamente numerosa produzione pubblicistica sulla vita e sull'attività di Pietro Zangheri si ricordano VEGGIANI 1984; SIMEONE 1985; SILVESTRI 1989; RUFFO 1993; TOSCANO2006. 180 seguito direttore. La scelta di tale occupazione non fu casuale, infatti essa gli concedeva un non indifferente tempo libero da dedicare ai propri interessi. Una regola ferrea rispettata sino ad avanzata età prevedeva un'applicazione allo studio quotidiano di almeno tre o quattro ore dopo il lavoro e durante le festività, nel corso delle quali si alternavano le escursioni. Più volte lo studioso nelle proprie lettere e nelle proprie comunicazioni fa riferimento a questa disciplina, definita da alcuni quasi francescana. Nella sua articolata opera di ricerca trovò spazio anche l'archeologia preistorica (PRATI 1985). A partire dal 1912 Zangheri seguì i lavori di cava della ex Fornace Ragazzini che intercettarono e distrussero in gran parte l'insediamento dell'età del Bronzo dei Cappuccinini presso Forlì (BERMOND MONTANARI 1996a, p. 195). La superficie messa in luce raggiunse i 30.000 mq computando anche la cava della ex Fornace Gori segnalata a suo tempo dal Santarelli (SANTARELLI 1883; Idem 1884) (fig. 9). La notizia dei rinvenimenti venne data in un primo momento in quotidiani e riviste locali (ZANGHERI 1921; Idem 1922), rimandando ad un pubblicazione data alle stampe solo quarant'anni dopo il resoconto integrale delle ricerche (ZANGHERI 1962). Secondo l'autore gli scavi della fornace Ragazzini avevano raggiunto verso est e sud-est i limiti dell'abitato. “In totale vennero dunque individuati trentasei buchi, dei quali soltanto la metà circa può venir riferita, per la sufficiente ampiezza dello scavo, ai cosiddetti fondi di capanne; quelli dell'altra metà, di diametro attorno ai 50 centimetri, potrebbero indicare dei pozzetti di scarico o dei buchi di pali, ma di legni di pali non si trovò traccia alcuna.” (ZANGHERI 1962, p. 309). Sul lato meridionale Zangheri individuò “in fosso che, a quanto pare, risaliva al tempo della stazione e penetrava, come le buche, nel terreno sottostante al nero” (ZANGHERI 1962, p. 307). Il record dei materiali “da una generale impressione di povertà quando si faccia il confronto con ciò che hanno dato le stazioni coeve, anche quella così vicina della Bertarina di Vecchiazzano. ... Scarsissimo il bronzo e così pure scarsissimi furono i rinvenimenti di manufatti di selce e di osso.” (ZANGHERI 1962, pp. 309-310). Lo strato archeologico dell'insediamento dei Cappuccinini non superava in media i 40-50 centimetri, suggerendo plausibilmente una breve durata di frequentazione, oppure che “forse non è senza basi l'ipotesi che la nostra tribù sia stata composta di genti povere, le quali non vivevano stabilmente ai Cappuccinini, ma solo per parte dell'anno (perciò avanzi scarsi), non nella stagione cattiva (perchè la pianura non doveva offrire permanentemente delle condizioni ottimali) ma durante i mesi migliori per i pascoli e per ricavare qualche altro beneficio economico, che la pianura poteva offrire a questi suoi primi «colonizzatori».” (ZANGHERI 1962, p. 317) Proprio il tema del popolamento preistorico della pianura romagnola ha occupato un'ampia riflessione, ripresa e sviluppata poco tempo sulla rivista “Emilia Preromana”. Zangheri era profondamente persuaso che solo durante l'età del Bronzo essa avesse conosciuto uno sviluppo demografico stabile. “Se qualcosa si troverà di genti più antiche (cultura di Remedello, per esempio, ecc.) si tratterà di stazioni più arcaiche sì, ma soltanto di pochissimi secoli, localizzate al margine pedemontano. Ogni ipotesi di popolamento della nostra pianura da parte di genti di età anteriori (paleolitiche, mesolitiche, neolitiche antiche) sembra a me difficilmente sostenibile.” (ZANGHERI 1956-64, p. 446). Ma la summa del suo pensiero scientifico e quasi degna autocelebrazione di una ricerca sul campo durata oltre mezzo secolo può essere considerata l'edizione de “La Provincia di Forlì nei suoi aspetti naturali” (ZANGHERI 1961), a tutt'oggi una delle rarissime edizioni esaustive di illustrazioni naturalistiche di un'intera provincia, nella quale viene riservata alla paletnologia una parte non irrilevante. L'intenzione dichiarata dell'autore non è quella di “scendere a tutti quei dettagli che trovano posto nelle pubblicazioni specializzate” ma “di fornire al lettore ... un panorama, per quanto possibile chiaro ed esaustivo del succedersi degli avvenimenti” al fine “di rendere più interessanti ed istruttive le notizie paletnologiche di casa nostra” (ZANGHERI 1961, p. 343). Nonostante tale premessa è evidente una conoscenza approfondita da parte dello Zangheri delle problematiche paletnologiche evidenziata dal ricorso ad una bibliografia assai aggiornata. L'aspetto più interessante è costituito dalle considerazioni di carattere metodologico che alla luce della relativa stagnazione in quegli anni degli studi di preistoria in Emilia-Romagna, appare quantomai moderna. “E se le cognizioni che possiede lo studioso della Natura posson recare ancora, in qualche campo, un valido contributo nelle indagini sulle culture primitive, fa d'uopo riconoscere che a un certo punto non sempre ben precisabile, perché le scienze «si danno la mano una con l'altra», il campo si apre di più per altri studiosi, per gli storici sopratutto. Ma senza dubbio una collaborazione utile potrebbero ancora fornirla, almeno per tutti i periodi «anteriori alla cronaca o storia documentaria», le scienze naturali, le quali non devono essere affatto viste (in argomento di preistoria) sotto la luce in cui le credeva Croce quando gli piacque assegnare alla preistoria una storicità sua.” (ZANGHERI 1961, p. 360). Zangheri si avvicinò pure alla speleologia, rivelandosi ben presto un convinto protezionista del patrimonio 182 ambientale romagnolo ante litteram (CAROLI 1985). D'altronde “nel mare immenso di ricerche ed esplorazioni da lui fatte in tutti gli ambienti, capitare sottoterra era quasi inevitabile” (BASSI, COSTA 1995, p. 107). Dimostrò anche in questo campo una grande preparazione per così dire multidisciplinare sin dalle sue prime comunicazioni riguardanti per lo più la Vena del Gesso. Fra il 1930 e il 1931 pubblicò diversi contributi tematici sulla celebre Grotta del Re Tiberio,18 sfoggiando approfondite conoscenze di natura geologica e paletnologica (ZANGHERI 1930, Idem 1930a; Idem 1931). Durante la sua attività escursionistica ebbe occasione di conoscere il “corsaro” Giovanni Mornig scopritore della Tanaccia di Brisighella, insieme al quale è ritratto in una fotografia scattata probabilmente presso il Buco della Noce (fig. 10).19 Non mancò in ogni occasione propizia di incrementare in tal modo la propria raccolta di reperti preistorici come si evince dall'inventario del Museo di Storia Naturale pubblicato dallo stesso studioso (ZANGHERI 1974). Fu proprio alla cura del Museo che Zangheri rivolse ogni attenzione dopo il collocamento a riposo nel 1954. In quegli anni cominciava anche ad insinuarsi nello studioso la preoccupazione per la conservazione delle proprie raccolte di natura per lo più deperibile. La volontà del naturalista forlivese era quella di trovare un'istituzione in grado di garantire una fruizione delle collezioni ed una loro pubblicazione scientifica integrale. L'amministrazione comunale di Verona si offrì di adempiere a tali clausole offrendo come sede museale Palazzo Gobetti, distaccamento del locale Museo Civico di Storia Naturale. L'atto di donazione fu siglato nel 1960. Nel frattempo, nel 1956, Pietro Zangheri aveva ricevuto la libera docenza in Geobotanica presso l'Università di Firenze, adeguato coronamento della sua straordinaria attività. Figura straordinaria di studioso-dilettante, per certi versi collegabile alla tradizione ottocentesca, emerge nel pieno della propria statura per il progetto di ricerca connaturato a tutta la propria esperienza finalizzato alla divulgazione ed alla pubblicazione di comunicazioni scientifiche di assoluta rilevanza, grazie anche all'ausilio costante di illustri pareri di luminari con i quali intrattenne una copiosa corrispondenza.
Via Pietro Zangheri
Via Pietro Zangheri
IL NATURALISTA PIETRO ZANGHERI E IL MUSEO DI STORIA NATURALE DELLA ROMAGNA Negli stessi anni nel Forlivese il testimone del Santarelli fu idealmente raccolto da uno studioso, Pietro Zangheri, affatto particolare che fece dello studio delle scienze naturali lo scopo della sua vita, pur dedicando alla paletnologia un ruolo probabilmente accessorio ma conseguendo senza dubbio risultati apprezzabili, in special modo se rapportati agli studi di preistoria condotti nel medesimo periodo in Romagna. Vista la naturale singolare di questa figura non si può prescindere dalla narrazione di alcuni episodi della biografia privata che concorrono a sottolinearne ancor di più la levatura scientifica. Nato a Forlì nel 1889, seguì per volere paterno studi di ragioneria pur accostandosi sin da giovanissimo alla ricerca naturalistica.17 Al 1909 risale la prima pubblicazione di carattere scientifico: “Appunti sulla flora nei dintorni di Forlì” (ZANGHERI 1909). Scorrendo la sua bibliografia scientifica (CICOGNANI et alii 1985, a cura di) si comprende però come decisivo per la sua maturazione di ricercatore fu paradossalmente lo scoppio della prima guerra mondiale. Assegnato, infatti, all'ospedale militare di Torino, per l'esperienza nella Sanità precedentemente accumulata durante la leva militare, ebbe modo di entrare in contatto con grandissime figure di studiosi che frequentavano l'Orto Botanico del capoluogo piemontese. Fra i più rilevanti si possono citare Giovanni Negri, che lo istruì allo studio della fitogeografia, Alberto Chiarugi, Raffaele Ciferri e Antonio Berlese, ma sopratutto l'entomologo di fama mondiale Mario Bezzi. Fu questi infatti a suggerire a Zangheri una precisa e rigorosa metodologia di studio e di lavoro, indirizzata alla costituzione di una raccolta completa di insetti di tutta la Romagna. Si tratta in nuce dell'idea di creare un “Museo di Storia Naturale della Romagna”, progetto sotteso a tutta l'attività scientifica del naturalista forlivese. Terminata la guerra Zangheri tornò nella città natale e trovò lavoro presso la locale casa di riposo, di cui divenne in 17 Nella relativamente numerosa produzione pubblicistica sulla vita e sull'attività di Pietro Zangheri si ricordano VEGGIANI 1984; SIMEONE 1985; SILVESTRI 1989; RUFFO 1993; TOSCANO2006. 180 seguito direttore. La scelta di tale occupazione non fu casuale, infatti essa gli concedeva un non indifferente tempo libero da dedicare ai propri interessi. Una regola ferrea rispettata sino ad avanzata età prevedeva un'applicazione allo studio quotidiano di almeno tre o quattro ore dopo il lavoro e durante le festività, nel corso delle quali si alternavano le escursioni. Più volte lo studioso nelle proprie lettere e nelle proprie comunicazioni fa riferimento a questa disciplina, definita da alcuni quasi francescana. Nella sua articolata opera di ricerca trovò spazio anche l'archeologia preistorica (PRATI 1985). A partire dal 1912 Zangheri seguì i lavori di cava della ex Fornace Ragazzini che intercettarono e distrussero in gran parte l'insediamento dell'età del Bronzo dei Cappuccinini presso Forlì (BERMOND MONTANARI 1996a, p. 195). La superficie messa in luce raggiunse i 30.000 mq computando anche la cava della ex Fornace Gori segnalata a suo tempo dal Santarelli (SANTARELLI 1883; Idem 1884) (fig. 9). La notizia dei rinvenimenti venne data in un primo momento in quotidiani e riviste locali (ZANGHERI 1921; Idem 1922), rimandando ad un pubblicazione data alle stampe solo quarant'anni dopo il resoconto integrale delle ricerche (ZANGHERI 1962). Secondo l'autore gli scavi della fornace Ragazzini avevano raggiunto verso est e sud-est i limiti dell'abitato. “In totale vennero dunque individuati trentasei buchi, dei quali soltanto la metà circa può venir riferita, per la sufficiente ampiezza dello scavo, ai cosiddetti fondi di capanne; quelli dell'altra metà, di diametro attorno ai 50 centimetri, potrebbero indicare dei pozzetti di scarico o dei buchi di pali, ma di legni di pali non si trovò traccia alcuna.” (ZANGHERI 1962, p. 309). Sul lato meridionale Zangheri individuò “in fosso che, a quanto pare, risaliva al tempo della stazione e penetrava, come le buche, nel terreno sottostante al nero” (ZANGHERI 1962, p. 307). Il record dei materiali “da una generale impressione di povertà quando si faccia il confronto con ciò che hanno dato le stazioni coeve, anche quella così vicina della Bertarina di Vecchiazzano. ... Scarsissimo il bronzo e così pure scarsissimi furono i rinvenimenti di manufatti di selce e di osso.” (ZANGHERI 1962, pp. 309-310). Lo strato archeologico dell'insediamento dei Cappuccinini non superava in media i 40-50 centimetri, suggerendo plausibilmente una breve durata di frequentazione, oppure che “forse non è senza basi l'ipotesi che la nostra tribù sia stata composta di genti povere, le quali non vivevano stabilmente ai Cappuccinini, ma solo per parte dell'anno (perciò avanzi scarsi), non nella stagione cattiva (perchè la pianura non doveva offrire permanentemente delle condizioni ottimali) ma durante i mesi migliori per i pascoli e per ricavare qualche altro beneficio economico, che la pianura poteva offrire a questi suoi primi «colonizzatori».” (ZANGHERI 1962, p. 317) Proprio il tema del popolamento preistorico della pianura romagnola ha occupato un'ampia riflessione, ripresa e sviluppata poco tempo sulla rivista “Emilia Preromana”. Zangheri era profondamente persuaso che solo durante l'età del Bronzo essa avesse conosciuto uno sviluppo demografico stabile. “Se qualcosa si troverà di genti più antiche (cultura di Remedello, per esempio, ecc.) si tratterà di stazioni più arcaiche sì, ma soltanto di pochissimi secoli, localizzate al margine pedemontano. Ogni ipotesi di popolamento della nostra pianura da parte di genti di età anteriori (paleolitiche, mesolitiche, neolitiche antiche) sembra a me difficilmente sostenibile.” (ZANGHERI 1956-64, p. 446). Ma la summa del suo pensiero scientifico e quasi degna autocelebrazione di una ricerca sul campo durata oltre mezzo secolo può essere considerata l'edizione de “La Provincia di Forlì nei suoi aspetti naturali” (ZANGHERI 1961), a tutt'oggi una delle rarissime edizioni esaustive di illustrazioni naturalistiche di un'intera provincia, nella quale viene riservata alla paletnologia una parte non irrilevante. L'intenzione dichiarata dell'autore non è quella di “scendere a tutti quei dettagli che trovano posto nelle pubblicazioni specializzate” ma “di fornire al lettore ... un panorama, per quanto possibile chiaro ed esaustivo del succedersi degli avvenimenti” al fine “di rendere più interessanti ed istruttive le notizie paletnologiche di casa nostra” (ZANGHERI 1961, p. 343). Nonostante tale premessa è evidente una conoscenza approfondita da parte dello Zangheri delle problematiche paletnologiche evidenziata dal ricorso ad una bibliografia assai aggiornata. L'aspetto più interessante è costituito dalle considerazioni di carattere metodologico che alla luce della relativa stagnazione in quegli anni degli studi di preistoria in Emilia-Romagna, appare quantomai moderna. “E se le cognizioni che possiede lo studioso della Natura posson recare ancora, in qualche campo, un valido contributo nelle indagini sulle culture primitive, fa d'uopo riconoscere che a un certo punto non sempre ben precisabile, perché le scienze «si danno la mano una con l'altra», il campo si apre di più per altri studiosi, per gli storici sopratutto. Ma senza dubbio una collaborazione utile potrebbero ancora fornirla, almeno per tutti i periodi «anteriori alla cronaca o storia documentaria», le scienze naturali, le quali non devono essere affatto viste (in argomento di preistoria) sotto la luce in cui le credeva Croce quando gli piacque assegnare alla preistoria una storicità sua.” (ZANGHERI 1961, p. 360). Zangheri si avvicinò pure alla speleologia, rivelandosi ben presto un convinto protezionista del patrimonio 182 ambientale romagnolo ante litteram (CAROLI 1985). D'altronde “nel mare immenso di ricerche ed esplorazioni da lui fatte in tutti gli ambienti, capitare sottoterra era quasi inevitabile” (BASSI, COSTA 1995, p. 107). Dimostrò anche in questo campo una grande preparazione per così dire multidisciplinare sin dalle sue prime comunicazioni riguardanti per lo più la Vena del Gesso. Fra il 1930 e il 1931 pubblicò diversi contributi tematici sulla celebre Grotta del Re Tiberio,18 sfoggiando approfondite conoscenze di natura geologica e paletnologica (ZANGHERI 1930, Idem 1930a; Idem 1931). Durante la sua attività escursionistica ebbe occasione di conoscere il “corsaro” Giovanni Mornig scopritore della Tanaccia di Brisighella, insieme al quale è ritratto in una fotografia scattata probabilmente presso il Buco della Noce (fig. 10).19 Non mancò in ogni occasione propizia di incrementare in tal modo la propria raccolta di reperti preistorici come si evince dall'inventario del Museo di Storia Naturale pubblicato dallo stesso studioso (ZANGHERI 1974). Fu proprio alla cura del Museo che Zangheri rivolse ogni attenzione dopo il collocamento a riposo nel 1954. In quegli anni cominciava anche ad insinuarsi nello studioso la preoccupazione per la conservazione delle proprie raccolte di natura per lo più deperibile. La volontà del naturalista forlivese era quella di trovare un'istituzione in grado di garantire una fruizione delle collezioni ed una loro pubblicazione scientifica integrale. L'amministrazione comunale di Verona si offrì di adempiere a tali clausole offrendo come sede museale Palazzo Gobetti, distaccamento del locale Museo Civico di Storia Naturale. L'atto di donazione fu siglato nel 1960. Nel frattempo, nel 1956, Pietro Zangheri aveva ricevuto la libera docenza in Geobotanica presso l'Università di Firenze, adeguato coronamento della sua straordinaria attività. Figura straordinaria di studioso-dilettante, per certi versi collegabile alla tradizione ottocentesca, emerge nel pieno della propria statura per il progetto di ricerca connaturato a tutta la propria esperienza finalizzato alla divulgazione ed alla pubblicazione di comunicazioni scientifiche di assoluta rilevanza, grazie anche all'ausilio costante di illustri pareri di luminari con i quali intrattenne una copiosa corrispondenza.
Ora Monte Poggiolo è una modesta altura del rilievo appenninico prima della pianura Ottocentomila anni fa qui arrivava il mare e gli uomini paleolitici scheggiavano la pietra fra le tranquille sabbie e ghiaie di un delta Durante l’attuazione – era il 1983 – di un programma di ricerche sulla distribuzione delle industrie paleolitiche nelle aree pedecollinari della Romagna venne scoperto uno dei più importanti giacimenti preistorici d’Europa. Il sito si trova a Ca’ (casa) Belvedere, a circa 200 metri di quota, nella parte alta del versante settentrionale di Monte Poggiolo (un rilievo cupoliforme fra Forlì e Castrocaro, al termine dello spartiacque tra il fiume Montone e il rio Petrignone) poco distante dal castello mediceo posto sulla sommità del colle. Lo scavo ha messo in evidenza una serie ghiaioso-sabbiosa dello spessore di cinque metri, poggiante su argille azzurre di origine marina, che contiene nella posizione originaria di abbandono le selci scheggiate dall’uomo del Paleolitico inferiore. Le indagini sui sedimenti e sui resti di fauna eseguite nel giacimento di Ca’ Belvedere di Monte Poggiolo potano a distinguere nella serie scavata una parte superiore di aspetto fluviale, ma con influenze marine (presenza di gasteropodi polmonati e di frammenti di Ostrea), e una parte inferiore in cui si accentua la situazione litorale di spiaggia. Tra i gasteropodi polmonati rinvenuti, la Cochlodina laminata, in particolare, è indice di un clima temperato freddo.Anche i pollini rilevati testimoniano una vegetazione di ambiente freddo a conifere (pini e abeti), con presenza di specie tipiche della steppa. Le datazioni radiometriche eseguite col metodo della risonanza elettronica e le analisi paleomagnetiche hanno fornito per il giacimento paleolitico un’età dell’ordine di 800-900 mila anni. Si tratta quindi di un’attestazione della presenza umana sul continente europeo fra le più antiche che si conoscano. […]
Monte Poggiolo
Ora Monte Poggiolo è una modesta altura del rilievo appenninico prima della pianura Ottocentomila anni fa qui arrivava il mare e gli uomini paleolitici scheggiavano la pietra fra le tranquille sabbie e ghiaie di un delta Durante l’attuazione – era il 1983 – di un programma di ricerche sulla distribuzione delle industrie paleolitiche nelle aree pedecollinari della Romagna venne scoperto uno dei più importanti giacimenti preistorici d’Europa. Il sito si trova a Ca’ (casa) Belvedere, a circa 200 metri di quota, nella parte alta del versante settentrionale di Monte Poggiolo (un rilievo cupoliforme fra Forlì e Castrocaro, al termine dello spartiacque tra il fiume Montone e il rio Petrignone) poco distante dal castello mediceo posto sulla sommità del colle. Lo scavo ha messo in evidenza una serie ghiaioso-sabbiosa dello spessore di cinque metri, poggiante su argille azzurre di origine marina, che contiene nella posizione originaria di abbandono le selci scheggiate dall’uomo del Paleolitico inferiore. Le indagini sui sedimenti e sui resti di fauna eseguite nel giacimento di Ca’ Belvedere di Monte Poggiolo potano a distinguere nella serie scavata una parte superiore di aspetto fluviale, ma con influenze marine (presenza di gasteropodi polmonati e di frammenti di Ostrea), e una parte inferiore in cui si accentua la situazione litorale di spiaggia. Tra i gasteropodi polmonati rinvenuti, la Cochlodina laminata, in particolare, è indice di un clima temperato freddo.Anche i pollini rilevati testimoniano una vegetazione di ambiente freddo a conifere (pini e abeti), con presenza di specie tipiche della steppa. Le datazioni radiometriche eseguite col metodo della risonanza elettronica e le analisi paleomagnetiche hanno fornito per il giacimento paleolitico un’età dell’ordine di 800-900 mila anni. Si tratta quindi di un’attestazione della presenza umana sul continente europeo fra le più antiche che si conoscano. […]